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Dott. Angelo Villa

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Jim / Morrison: Rockstar narcisista / Narcisista fragile

2024-03-20 00:00

di Vittorio Gonella

FORT-DA numero 2/2024,

Jim / Morrison: Rockstar narcisista / Narcisista fragile

di Vittorio Gonella

“He was lost and I don’think, he wanted it that way,
like a gull blown inland on a stormy day”
 

(‘Morrison’, CPR, words by David Crosby, 1998)

Nelle prima pagina del loro libro Il disagio del narcisismo, Gabbard e Crisp scrivono: “Ci siamo resi conto che un alone di fascino circonda i narcisisti in vari ambiti, da quello della politica a quello dello spettacolo” (2018, 9); qualche pagina dopo aggiungono: “capita più di frequente che i narcisisti siano straordinariamente insicuri circa la propria capacità di amare ed essere amati e siano alla spasmodica ricerca di altri che possano ammirarli, esserne colpiti, provare empatia per i loro bisogni” (15). La breve parabola esistenziale e artistica di Jim Morrison, poeta, fondatore e leader del gruppo rock The Doors, morto nel 1971 a soli 27 anni, sono uno dei più tragici esempi di come queste due riflessioni siano, in realtà, un unicum: la sua storia ci parla di un individuo e dei suoi bisogni, del valore dell’arte e di come, a volte, l’apprezzamento del pubblico si limiti a una funzione di specchio – che richiama il dramma intrinseco al mito di Ovidio – narcisisticamente gratificante ma lontana dal riconoscere quei precoci bisogni di rispecchiamento – descritti da Winnicott nel suo articolo sulla funzione di specchio della madre (1967) – che promuoverebbero una funzione narcisistica evolutiva e benigna. Jim Morrison, mito dei giovani di quegli anni ma individuo solo come Narciso nel mito, si dimostrerà più fragile dei suoi demoni, perdendo molto presto la sua battaglia per la vita.

 

Rock e Psicoanalisi: Jim Morrison incontra Narciso

Come possiamo definire un’opera d’arte in termini psicoanalitici? Prendendo spunto dagli studi della filosofa americana Susanne Langer, secondo la quale l’arte è la creazione di forme simboliche del sentimento umano, lo psicoanalista inglese Kenneth Wright, allievo di Winnicott, sostiene che l’artista attraverso “la creazione artistica oggettivizza la sua soggettività, rendendola più visibile e reale”, costituendo “una struttura di holding che la conferma e la salvaguarda” (Wright, 2022, 358). Atto creativo e opera d’arte che Bollas definisce “oggetto transunziente” (1999, 217) perché non esprime più semplicemente il Sé ma lo ri-forma

Dalla metà degli anni Sessanta il rock, nato come forma d’intrattenimento e poi divenuto anche manifesto generazionale, inizia a essere lo strumento con cui l’artista parla di sé, mettendosi in gioco attraverso l’utilizzo contemporaneo degli strumenti musicali, dei testi scritti e della voce; assume così – in uno stimolante parallelo con la psicoterapia – grande valore la relazione tra opera e storia di vita dell’artista: il disco assume una funzione di contenimento del Sé e delle fragilità traumatiche, che, in modo simile a un working through analitico, vengono trasformate e messe a disposizione del pubblico, anche se in una forma ‘nuova’ e non sempre riconducibile all’autore. 

Jim Morrison, probabilmente la più iconica figura della musica moderna, ha inciso nei solchi dei dischi dei Doors la propria originaria fragilità: un novello Narciso che si specchia nelle acque della vita sperando, ogni volta, di incontrare un Altro che non si limiti a vedere e riflettere la sua immagine ma che sia in grado di offrirgli un ‘rispecchiamento’, inteso come un vedere ‘al di là’ dell’apparenza, dell’estetica e del comportamento trasgressivo. La sua parabola artistica, che lo portò in pochissimi mesi a essere ‘visto’ come un eroe maledetto e pieno di sé, sex symbol trasgressivo e seduttivo, si concluse drammaticamente lontano dalle luci della ribalta, a Parigi, dove si era trasferito, stanco di dover corrispondere alle esigenze dei fans e dello showbusiness – poco interessati alle sue poesie, il suo più autentico strumento comunicativo – affascinati dalle sue performance eccessive e dionisiache, on stage e nella vita privata. 

Nato nel 1943, figlio di un ufficiale della Marina, Jim Morrison trascorse gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza traslocando frequentemente da una città all’altra degli Stati Uniti, vivendo spesso nelle basi dell’Esercito mentre il padre per lunghi periodi era assente, in nave; descritto come un bambino schivo ma incline a fare continuamente scherzi pesanti, non poté mai fare esperienze di relazioni durature coi coetanei, che incontrava ed era costretto ad abbandonare ogni volta troppo in fretta. L’adolescenza fu un periodo buio, in cui cercò in modi sempre originali e teatrali di guadagnarsi quell’attenzione e quel riconoscimento che non aveva mai ricevuto dai genitori: persone orgogliose delle capacità e dei talenti del figlio, ma non in grado di accettarne e apprezzarne i modi autenticamente individuali in cui si esprimeva. Jim scriveva poesie, leggeva moltissimi libri di filosofia e di letteratura spesso sconosciuti ai suoi stessi professori di liceo; si iscrisse poi a un corso universitario di cinematografia ma la presentazione del suo primo cortometraggio – come esame di fine anno accademico – fu un’esperienza terribile: il montaggio maldestro e i contenuti troppo originali provocarono l’ilarità degli studenti e la delusione dei professori presenti alla proiezione; Jim, ferito nell’ambito in cui sognava di primeggiare, abbandonò immediatamente l’università, non potendo tollerare che la delusione e la vergogna contaminassero proprio ciò a cui aveva consegnato la sopravvivenza del suo intero Sé. Le coincidenze vollero che, proprio in quei giorni, sulle spiaggie di Venice a Los Angeles, incontrò Ray Manzarek, giovane e talentuoso musicista, a cui fece leggere alcune delle sue poesie: il futuro tastierista dei Doors reagì entusiasticamente, convinto che Jim avesse qualità artistiche al di fuori del comune, decise di fondare un gruppo musicale con lui, nonostante la contrarietà degli amici, a conoscenza degli aspetti caratteriali di Morrison e del suo rapporto con marijuana e lsd, sostanze con le quali tendeva a esagerare, cercando di venir riconosciuto come il più ‘junky’ di tutti (le sue biografie narrano ripetuti episodi di assunzioni esagerate di sostanze, già prima del successo e della fama).

Jim scrisse ai genitori, trasferitisi pochi mesi prima a Londra, una lettera entusiasta per informarli della novità ma il padre gli rispose dichiarando la sua ferma contrarietà, ricordandogli che da bambino aveva abbandonato le lezioni di pianoforte e considerava pertanto “una sciocchezza” la scelta del figlio di fondare un gruppo musicale e cantare. Dopo averla letta, Jim Morrison non scriverà mai più ai suoi genitori e racconterà ai membri del gruppo di essere orfano. 

Credo siano sufficienti queste poche note biografiche per immaginare quanto i bisogni di un riconoscimento di Sé e della propria autenticità siano sempre stati vitali nel suo relazionarsi al mondo: la musica divenne l’ennesimo tentativo di comunicare qualcosa di personale, il bisogno di trovare nell’ascolto-sguardo dell’Altro la presenza di una funzione emotiva ed empatica che potremmo definire to feel, not only to listen (Gonella, 2024) delle canzoni.

 

‘The Doors’: un album di sguardi e abbracci

Passo ora ad analizzare brevemente il primo album omonimo del gruppo, soffermandomi su alcuni brani che richiamano gli aspetti sin qui descritti: The Doors (1967) viene pubblicato nel pieno della stagione peace and love (che ha nella vicina San Francisco la sua capitale culturale e musicale) ma presenta un’atmosfera ben diversa: la voce profonda di Jim e il sound ipnotico e notturno della band creano, in alcune canzoni, un senso di tensione e imminente catastrofe; è un disco ricco di riferimenti al corpo e alla sua funzione contenitiva, vengono più volte citati gli ‘occhi’, in un susseguirsi di immagini associabili all’incontro sentimentale e sessuale ma anche – a mio parere – all’infantile e al materno. 

Break on through, la canzone che apre l’album, divenuta immediatamente un inno generazionale per il suo esplicito invito a ribellarsi che Jim canta con veemenza – “Tried to run, Tried to hide / Break on through to the other side”[1] è, a mio parere, una richiesta di aiuto: le radici intrapsichiche della canzone si ritrovano nella mente di un giovane – poco più che ventenne quando la scrisse – che non ha mai trovato una propria side, un luogo in cui potersi collocare: Jim ha ‘provato a correre’ (per essere visto?), ha ‘provato a nascondersi’ (pensando a Winnicott: per essere trovato?) ma ora teme che i propri aspetti trasgressivi diventino irrimediabilmente distruttivi, a meno che qualcuno lo segua e gli stia vicino in questo ‘irrompere’ oltre qualche cosa (si parla forse del terrore di rompere lo specchio e ritrovarsi da soli di fronte al proprio fragile Sé?). 

La canzone descrive poi la confusione in cui si trova la sua mente: 

“I found an island in your arms/ Country in your eyes / Arms that chained us / Eyes that lied[2]

Le braccia possono essere un’isola ‘abbraccio’ ma diventare catene devitalizzanti e, soprattutto, gli occhi possono essere un luogo con dei confini (una nazione con una f(α)?) o qualcosa che mente e inganna (una risposta semplicemente imitativa per cui, come nel mito di Narciso, non si trova un abbraccio?).

Nei versi successivi incontriamo l’immagine di un “gate straight deep and wide”[3]: Jim Morrison è un Narciso che in uno specchio di acque torbide non vede più la propria immagine, non sembra essere sulla soglia di un ‘break on through’ ma su quella di un breakdown in cui rischia di precipitare, senza riuscire a vedersi e non potendo chiedere aiuto; siamo solo nei primi minuti dell’opera ma il clima è già drammatico: vita o morte.

Soul kitchen, il secondo brano, riprende le stesse tematiche:

“Well, the clock says it’s time to close now / I guess I’d better go now / I’d really like to stay here all night / The cars crawl past all stuffed with eyes”[4].

La canzone descrive il ristorante dove la band andava spesso e Jim lo utilizza per creare un confronto tra un luogo accogliente dove stare tutta la notte e un mondo ‘esterno’ pieno di “occhi” che guardano e che vorrebbe evitare “in modo da non vedere contraddetta la speranza di averli profondamente colpiti” (Gabbard e Crisp, 2018, 61).

Twentieth century fox, quarta traccia del disco, descrive – al femminile – una star alla moda, con tutte le caratteristiche dei narcisisti del mondo dello spettacolo citati da Gabbard e Crisp: 

“She’s a twentieth century fox / No tears, no fears / No ruined years, no clocks[5]

Mi chiedo se in questo brano Jim Morrison descriva i suoi timori – poi confermati – legati al successo: il mondo dello spettacolo, il pubblico e la stampa pretenderanno da lui di essere ‘senza lacrime e senza paure’, aspettativa che fece sua attraverso una scissione che ebbe “come risultato la preservazione della struttura grandiosa del Sé” (ibid., 64), mentre tentava di anestetizzare con gli abusi di sostanze dolori inesprimibili e ferite mal curate.

Anche I looked at you fa riferimento allo sguardo, all’incontro visivo come qualcosa dall’enorme significato:

“I looked at you / You looked me / I smiled at you / You smiled at me”

Ma come sarà questo incontro - scambio di sguardi? Saranno, anche solo in qualche piccolo dettaglio, differenti e quindi forieri di vitalità e cambiamento, confermando le parole di Winnicott: “quando guardo sono visto, così esisto” (1967, 180)? O saranno l’ennesima ripetizione della traumatica esperienza di Narciso, convinto di incontrare qualcun-Altro ma poi deluso e consapevole che è solo un riflesso ‘identico’, senza vitalità dove, ripensando ancora a Winnicott (1967), Narciso guarda ma non si vede?

Il disco si conclude con l’epica di The End, dieci minuti di tensione crescente che culminano nel finale rabbioso – “Father, I want to kill you / Mother, I want to fuck you![6]” – che richiama la profezia edipica di un passaggio all’atto proprio per quel mancato rispecchiamento narcisistico, che avrebbe permesso un contenimento a livello di pensiero della furia, densa di rancore, verso i genitori. 

 

Termino il mio lavoro con un ricordo dell’adolescenza: nella seconda metà degli anni Ottanta ero tra i tanti ragazzi affascinati dalla iconica figura di Jim, ascoltavo i dischi dei Doors facendo poca attenzione ai testi, molto più colpito dai racconti che alimentavano il mito sulla sua immagine bella e dannata e sull’uso smodato di droghe e alcol; cercavo le videocassette dei concerti per vedere le sue performance dense di tensione drammatica, provocazione e sessualità. Riguardavo spesso il filmato di una breve intervista, all’uscita di un aeroporto, durante la quale ogni membro del gruppo doveva rispondere alle domande “Name?”, “Age?”, “Occupation?”: gli altri tre membri della band (Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore) svolgono il compito, poi esce Morrison… si sente la voce dell’intervistatore: “Name?”…; “Mmh… Jim” risponde il cantante… seconda domanda: “Occupation?”… Jim guarda la telecamera continuando a sorridere in modo seduttivo e angelico, senza pronunciare altre parole. 

Vedevo in quell’immagine l’apoteosi del mito inarrivabile, qualcuno capace di andare oltre ogni limite e richiesta (break on through to the other side!), sentendosi superiore a tutto e tutti; oggi, intrecciando questi ricordi con la formazione psicoanalitica, mi accorgo di ciò che manca in quell’intervista: manca “Morrison”, quella parte del Sé – a cui si rivolge il brano citato in esergo, scritto da un’altra grande rockstar di quegli anni, David Crosby – che Jim, nel corso della carriera, ha sottoposto a un processo di scissione, augurandosi di poter vivere grazie alla dose di narcisismo che riceveva da coloro in cui si specchiava e che vedevano solo Jim: un’illusione durata tre anni, sufficienti per trovarsi, da una parte, Jim ‘proiettato’ nell’Olimpo delle rockstar immortali e, dall’altra, Morrison, che morì, solo e lontano dalle luci della ribalta, immerso nell’acqua – come un Narciso disperato – in una vasca da bagno di un albergo nel centro di Parigi.

 

(Ringrazio la collega e amica Anna Cordioli per il continuo e arricchente dialogo su musica e psicoanalisi, su cui far crescere idee e pensieri, offrendo loro una forma scritta)

 

Bibliografia

Bollas C. (1999), Il mistero delle cose, Milano, Raffaello Cortina, 2001.

Gabbard Glen O., Crisp H. (2018), Il disagio del narcisimo. Milano, Raffaello Cortina.

Gonella V. (2024), Break on through (to the other side). Il disco d’esordio: processo di soggettivazione di una rockstar. In De Mari M. (a cura di), Musica e Adolescenza. Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi.

Hopkins J., Sugerman D. (1980), Nessuno uscirà vivo di qui, Bologna, Kaos Edizioni, 1990.

Winnicott D. W. (1967), La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile. In Winnicott D. W., Gioco e realtà, Roma, Armando editore, 1971.

Wright K. (2022), Verso una teoria dell’holding. La prospettiva dalla creazione artistica, Richard e Piggle, 30, 351 – 362


 

[1]Hai provato a correre / Hai provato a nasconderti / Irrompi dall’altra parte

[2] “Ho trovato un’isola nelle tue braccia, uno Stato nei tuoi occhi / Braccia che ci incatenavano, occhi che mentivano”

[3] Il cancello è dritto, profondo e ampio

[4] “Bene, l’orologio dice che è ora di chiudere, penso sia meglio andare anche se vorrei stare qui tutta la notte, le macchine strisciano oltre tutte imbottite di occhi”

[5] “Lei è una star del ventesimo secolo, niente lacrime nessuna paura, nessun anno in rovina né orologi”

[6] “Papà, voglio ammazzarti / Mamma, voglio fotterti!”

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