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Dott. Angelo Villa

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Psicosi, Psicosi ovunque!

2024-07-19 02:35

di Gianfranco Ricci

FORT-DA numero 3/2024,

Psicosi, Psicosi ovunque!

Psicosi, Psicosi ovunque! di Gianfranco Ricci

La clinica psicoanalitica nasce come trattamento della nevrosi isterica ed ossessiva. In numerose delle sue lettere a Fliess, Freud racconta della complessità della propria ricerca, del solitario lavoro per comprendere a fondo la sofferenza dei suoi pazienti. Negli anni precedenti la pubblicazione dell’“Introduzione dei sogni” (1899), il Padre della psicoanalisi vive momenti di vero e proprio scoramento:

 

“Il segreto di questa irrequietezza è l'isteria. In questo caso, nell'attività e nella mancanza di qualsiasi novità interessante, l'intera questione è venuta a gravare sull'anima. Il mio lavoro mi sembra ora di assai minor pregio.

Il mio disorientamento è totale e il tempo sembra maledettamente inadeguato a ciò che il problema richiede…”[1]

 

Freud è sostanzialmente solo nella propria ricerca; tramontata l’amicizia paterna con Breuer, non gli resta che il rapporto epistolare con Fliess, anch’esso destinato a terminare per motivi di paternità circa l’idea della bisessualità originaria dell’essere umano.

L’opera di Freud ha aperto il vasto campo del trattamento delle nevrosi, che nel corso della prima metà del Novecento ha rappresentato l’ambito di applicazione della Psicoanalisi. Lo stesso Freud, a inizio secolo, era scettico circa l’applicazione del suo metodo ad altri pazienti, come quelli affetti dalla psicosi:

 

“Le psicosi (...) sono pertanto inadatt(e) alla psicoanalisi, perlomeno così come viene praticata fino ad oggi. Io ritengo che non sia affatto da escludersi che, modificando opportunamente il procedimento, si possa superare questa controindicazione e dare così l'avvio a una psicoterapia delle psicosi”[2]

(Freud, “Psicoterapia”, 1904, pag.435)

 

Le perplessità di Freud traevano la loro forza dalle difficoltà nel maneggiamento del transfert nella psicosi, considerato impossibile, almeno nelle modalità previste nell’analisi condotta con pazienti nevrotici.

Scomparso Freud (1939), gli ambiti dell’applicazione dell’analisi come terapia si sono progressivamente allargati anche  a forme di sofferenza psichica prima escluse dal trattamento.

Nella seconda metà del secolo, il trattamento della psicosi in ambito analitico ha vissuto un vivo impulso, in particolare in area inglese, nordamericana e francese. Lo stesso Lacan, nel corso del Seminario III, dedicato alle psicosi, affermò che:

 

“Il nostro punto di partenza è il seguente: l’inconscio c'è, è presente nella psicosi. Gli psicanalisti lo ammettono, a torto o a ragione, e noi ammettiamo con loro che in ogni caso è un punto di partenza possibile. L'inconscio c'è ma non funziona. Contrariamente a quanto si era potuto credere, il fatto che ci sia non comporta di per sé alcuna risoluzione, anzi al contrario, un'inerzia del tutto particolare.”[3]

 

Possiamo dire che il secondo Novecento, per la psicoanalisi, è stato orientato prevalentemente allo studio degli stati limite (i cosiddetti bordeline, narcisistici, antisociali) e dell’ampia famiglia della psicosi (non più riconducibile alle sole forme paranoiche, schizofreniche ed erotomaniacali). Nuove Scuole e nuovi approcci sono nati per rendere conto degli inevitabili effetti sulla pratica clinica del lavoro quotidiano con nuove tipologie di pazienti.

 

L’evoluzione della tecnica, come abbiamo visto, nasce da un’osservazione iniziale ma già decisiva: il paziente psicotico richiede un trattamento diverso da quanto previsto nella clinica della nevrosi.

Per questo, la prima questione clinica che è necessario porci è quella della diagnosi differenziale. Come possiamo fare diagnosi di nevrosi e/o psicosi? In cosa si differenziano?

Da un punto di vista lacaniano, troviamo una prima sostanziale differenza tra nevrosi e psicosi nell’operatività (o meno) della metafora paterna: nella nevrosi sarebbe insomma possibile reperire gli effetti dell’azione simbolica del “Nome del Padre”, inoperativo invece nella psicosi.

Nel “caso clinico dell’uomo dei lupi” di Freud emerge per la prima volta il concetto di “Verwerfung”, tradotta come forclusione o preclusione, sulla quale si fonderebbe la psicosi: un significante fondamentale per il soggetto sarebbe “precluso”; tale significante, il “Nome del Padre” lascerebbe quindi spazio ad un “buco” nella struttura, direttamente legato ad un possibile scatenamento della psicosi.

In maniera schematica, la nevrosi si fonderebbe invece sulla prevalenza della “Verdrängung”, la rimozione, e la perversione invece sulla “Verneinung”, la negazione.

Tuttavia, dagli anni Ottanta e Novanta possiamo assistere ad un nuovo movimento all’interno del mondo clinico psicoanalitico, lacaniano e non; come osserva Sergio Sabbatini, psicoanalista SLP e AMP:

“In fondo tutte le componenti postfreudiane, lacaniani compresi, testimoniano di questi mutamenti: un ampliamento del campo delle psicosi, una correlativa riduzione di quello delle nevrosi, la proposta di categorie intermedie: borderline, psicosi bianche, fredde, stati limite, patologie narcisistiche, e in ambito lacaniano, la cosiddetta psicosi ordinaria. A cui si aggiungono i cosiddetti nuovi sintomi specifici dell’ipermodernità.”[4]

 

Nel 1998, nell’ambito della “conversazione clinica” di Antibes (La psicosi ordinaria – Convenzione di Antibes), Jacques Alain Miller propone una ripresa (e conseguentemente inaugura la centralità clinica) del concetto di psicosi ordinaria: il campo analitico che, in origine discontinuista, diviene invece continuista.

La clinica delle strutture infatti, come intesa da Freud e dal “Lacan classico”, è legata ad una concezione “discontinuista”, con confini chiari tra nevrosi, psicosi e perversione: “il Nome-del-Padre” è operativo?”, vi sono fenomeni di linguaggio? Sono presenti fenomeni elementari?

La clinica continuista invece affonda le proprie radici in un modo nuovo di intendere la teoria e la pratica della psicoanalisi: l’eclissi delle figure classiche della nevrosi (l’isteria e la nevrosi ossessiva) avrebbe lasciato spazio ad una “generalizzazione della psicosi”, da non intendersi più nella forma “straordinaria” di Schreber, bensì nella forma “ordinaria”, basata sul concetto di “estraneità”.

 

In questa nuova concezione trovano spazio le elaborazioni sulla psicosi dell’ultimo Lacan: nel corso del suo insegnamento infatti, lo psicoanalista francese porterà la sua ricerca sulla psicosi verso lidi inediti, con i concetti di “nodo” e di “sinthomo”, focalizzandosi sulla topologia e il godimento, privilegiando il registro del reale rispetto al simbolico.

 

La psicosi ordinaria, che trova echi significativi nel lavoro di analisti come André Green (la psicosi bianca), intesa come “psicosi non scatenata”, si fonda su tre forme di estraneità: rispetto al linguaggio, rispetto al corpo e rispetto all’Altro.

In particolare, il soggetto psicotico, il cui paradigma di riferimento pare essere divenuto James Joyce (benché lo stesso Lacan escludesse una diagnosi di psicosi per lo scrittore irlandese), vivrebbe un rapporto di “disallineamento”, di “sganciamento” rispetto, ad esempio, il proprio corpo.

 

È infatti celebre l’aneddoto che circola intorno ad una rissa che vide protagonista il giovane Joyce, nata intorno ad una disputa circa il poeta preferito. Violentemente picchiato per la preferenza accordata a Byron, Joyce avrebbe avuto l’impressione che il suo corpo si staccasse da lui, come la buccia da un frutto maturo. Lacan descrive questo “distacco” tra corpo e soggetto nel corso dell’ultima lezione del Seminario XXIII, interpretandolo come un “difetto” di annodamento tra reale e simbolico; il difetto nella costruzione del “Nodo borromeo” determinerebbe una mancata tenuta del nodo nel suo insieme, facendo sì che l’anello dell’immaginario si sfili. Joyce così non sente il dolore delle botte, “staccandosi” dal proprio corpo, come la buccia dal frutto.

 

Il concetto di psicosi ordinaria ha trovato grande risonanza e centralità nella clinica psicoanalitica lacaniana; non a caso, la clinica contemporanea è oramai apertamente considerata “continuista” e il titolo del convegno del 2024 dell’AMP (Associazione mondiale di psicoanalisi) è stato “Tutti sono folli”.

 

Possiamo finalmente dire: psicosi! Psicosi ovunque!

 

Anche nel campo psicoanalitico non lacaniano, le differenza tra clinica della nevrosi e clinica della psicosi sono sempre più sfumate; prendiamo ad esempio il lavoro di Winnicott e la centralità del costrutto di “identificazione proiettiva”.

Come puntualmente osserva Bruce Fink[5], il concetto di “holding”, proposto da Winnicott, in origine, nella descrizione della diade “madre – bambino”, pare essere divenuto il faro della clinica psicoanalitica, al di là della diagnosi. Ideato per la clinica della psicosi, il concetto di “holding” è oramai adottato nella Scuola inglese in modo indipendente dalla diagnosi del paziente, pur di evitare (evidentemente anche all’analista!) l’incontro con l’esperienza dell’angoscia.

 

Dall’altra, il concetto di “identificazione proiettiva” pare essere divenuto un costrutto passepartout al quale aggrapparsi nell’annosa diatriba transfert – contro transfert. Analisti come Casement ed Ogden hanno esteso i confini dell’identificazione proiettiva, in origine intesa da Melanie Klein come un processo proprio del neonato o dell’adulto psicotico.

Casement arriva ad affermare che il terapeuta possa essere costretto a sentire quanto vive il paziente:

“la signora T faceva molto più che proiettare i suoi sentimenti su di me. Mi ha fatto sentire quello che non riusciva ancora a sopportare dentro di sé a livello conscio”[6]

Il contro transfert dell’analista in quanto tale evapora e viene ricondotto esclusivamente, anche se l’autore non chiarisce in modo dettagliato come, ad una proiezione del paziente.

 

Casement ed Ogden arrivano a considerare l’identificazione proiettiva come un meccanismo presente e prevalente in tutti i pazienti, al di là della loro diagnosi.

Un meccanismo proprio della prima infanzia (inteso nella forma del transitivismo) e della psicosi viene così generalizzato.

 

Ecco di nuovo: psicosi! Psicosi ovunque!

 

E se invece non fosse così? E se invece, tanto in ambito lacaniano quanto extra – lacaniano, avessimo perso i riferimenti per cogliere in modo efficace la differenza tra nevrosi e psicosi?

Il privilegio accordato al costrutto di “psicosi ordinaria” può aver favorito una posizione maggiormente docile dell’analista, preoccupato di “toccare il tasto sbagliato” con un paziente psicotico?

Siamo oramai abituati a considerare la nostra epoca come quella del “tramonto del Padre”: è tuttavia necessario ricordare che già Nietzsche, quasi cent’anni prima, annunciava: “Dio è morto!”.

La generalizzazione degli accorgimenti tecnici adottati per la psicosi all’intero spettro delle possibili strutture cliniche è davvero dovuta all’effettivo “funzionamento” dei pazienti incontrati?

Ricordo con affetto un aneddoto: un noto psicoanalista lacaniano milanese, sbeffeggiando i colleghi dell’IPA per il loro uso della categoria “borderline”, disse: “gli americani non sanno più fare diagnosi differenziale tra nevrosi e psicosi”.

Ebbene, noi invece? Sappiamo ancora vedere al di là della psicosi ordinaria, della generalizzazione della psicosi e del Sinthomo?

Davvero la nevrosi è scomparsa dai radar della clinica?

 

Mi chiedo se il generale movimento “continuista” che ha caratterizzato la psicoanalisi negli ultimi anni non abbia favorito una certa “cecità” analitica sul versante della diagnosi, spingendo l’analista a rinunciare all’arduo lavoro con l’inconscio, inteso come rimosso, a favore di un processo di normalizzazione, di docile accompagnamento al benessere; all’evitamento, in sostanza, dell’affetto che, più di qualunque altro, segna la strada verso la verità del soggetto: l’angoscia.


 

[1]Freud Sigmund, 1991, Epistolari. Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904), trad.it. di M. A. Massimello, Torino Bollati Boringhieri, n°363;

[2]Freud Sigmund, a cura di Cesare Musatti, 1982, Psicoterapia (1904), in Opere, Vol. IV, Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, 1900-1905, Torino, Bollati Boringhieri;

[3]Lacan Jacques, a cura di Antonio di Ciaccia, 2010, Il seminario, Libro III, Le psicosi 1955-

        1956, Torino, Einaudi, cit. pag. 165-166;

[4]S. Sabbatini, La clinica psicoanalitica e l’ordine simbolico del XXI secolo. Qualche considerazione. Relazione tenuta all’Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi – Roma, 26 novembre 2010. Pubblicato in http://www.psychomedia.it/isap/saggi/sabbatini2.htm.

[5]Fink Bruce, 2022, Fondamenti di tecnica psicoanalitica, Trad. it. Di C. Lombardi, E. Imperatore e C. Muscelli, Roma, Alpes;

[6]Casement Patrick J., 1991, Learning from the patient, New York, Guilford, cit. pag.70 (citato in Bruce F., 2022);

 

Bibliografia.

Casement Patrick J., 1991, Learning from the patient, New York, Guilford;

Fink Bruce, 2022, Fondamenti di tecnica psicoanalitica, Trad. it. Di C. Lombardi, E. Imperatore e C. Muscelli, Roma, Alpes;

Lacan Jacques, a cura di Antonio di Ciaccia, 2010, Il seminario, Libro III, Le psicosi 1955-1956, Torino, Einaudi, cit. pag. 165-166;

Freud Sigmund, a cura di Cesare Musatti, 1982, Psicoterapia (1904), in Opere, Vol. IV, Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti, 1900-1905, Torino, Bollati Boringhieri;

Freud Sigmund, 1991, Epistolari. Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904), trad.it. di M. A. Massimello, Torino Bollati Boringhieri, n°363;

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