Reale, trauma e inconscio non rimosso
di Roberto Karra
Nella tradizione psicoanalitica il Reale rappresenta ciò che non è possibile pensare, rappresentare, simbolizzare, cogliere nel discorso del soggetto. Si tratta, quindi, di ciò che si pone al di là del simbolico, poiché come scrive Lacan «resiste in modo assoluto alla simbolizzazione»[1]. Questo concetto, sviluppato da Lacan in modo particolare nell’ultima parte del suo insegnamento, è molto importante perché lega tanti sintomi clinici contemporanei che sfuggono all’idea dell’inconscio freudiano rimosso (quello strutturato come un linguaggio). I contenuti di tale inconscio, le emozioni non simbolizzate, si manifestano in maniera diretta e concreta attraverso il corpo che gode sempre in silenzio; è, quindi, proprio il silenzio (della pulsione e del significante) che ci permette di avvicinarci all’esperienza del Reale in psicoanalisi.
Possiamo quindi dire che corpo, godimento e silenzio mettono in luce un resto non simbolizzabile della catena significante, indicano quella parte del nostro vissuto che è generata dal significante ma che non è maneggiabile facendo appello alla dimensione del senso o alla pluralità dei meccanismi di difesa con cui gli esseri umani si proteggono dall’ustione di un Reale insensato. Per questo motivo è innominabile e di conseguenza terrificante, a meno che non venga contenuto, filtrato dai due ordini, dell’immaginario e del simbolico; il Reale è quindi di per sé traumatico: esso rappresenta, infatti, uno dei registri essenziali nel processo di soggettivazione desiderante.
Trauma e Reale, però, non per forza coincidono; a essere traumatica è l’impossibilità di contenere l’azione del Reale. Di conseguenza, come sottolinea Recalcati, ci si pone di fronte a una questione centrale per ciò che riguarda la clinica del Reale, ossia l’inefficacia di qualsiasi interpretazione orientata a svelare la verità inconscia dell’individuo (inconscio rimosso)[2].
Nella vita di una persona l’esperienza del Reale non si lascia insabbiare in nessun romanzo familiare; il Reale rimane sempre come un detrito mnestico e corporeo che nessuna elaborazione simbolica può corrodere fino in fondo. Infatti, il Reale delle emozioni non simbolizzate, vissute concretamente nei primi anni di vita, rappresenterebbe la condizione normale di un funzionamento psichico in una fase evolutiva in cui non sono ancora maturi i centri neuronali preposti alle attività cognitive e di simbolizzazione verbale.
Sappiamo che nei primi tre anni di vita i vissuti emotivi del sé vengono immagazzinati nella memoria implicita. Ma in contesti relazionali in cui il bambino fa esperienza di un ambiente emotivamente trascurante, non in grado cioè di sintonizzarsi e di riconoscere le sue richieste emotive, queste provocherebbero il residuarsi di emozioni primitive (le emozioni traumatiche, o elementi beta bioniani) dall’effetto disturbante per il suo successivo sviluppo psicosomatico.
In soggetti con croniche storie di trascuratezza le emozioni traumatiche popolano quella parte della psiche definibile come “inconscio non rimosso”, costituendo veri e propri buchi corporei capaci di evocare un vissuto terrificante, tipico dei quadri psicotici e delle dimensioni borderline.
L’esperienza del buco ha a che fare con un Reale che è di per sé il nucleo di qualsiasi normale esperienza affettiva, ma a condizione che vada incontro a una riformulazione immaginaria prima e simbolica poi. In condizioni di accudimento sufficientemente buono il confronto con il Reale delle emozioni non ancora simbolizzate (in risposta a stress gestibili nella relazione con il caregiver) può determinare la formazione di vissuti a partire dai quali il bambino comincia a fare esperienza di un mondo estraneo, staccato da sé.
Il non-senso di queste esperienze crea le condizioni per la successiva divisione soggettiva; è nei casi di cronico disconoscimento, di deprivazione affettiva che il Reale delle emozioni primitive assume una violenza tale da determinare una grave disorganizzazione psichica e somatica. È singolare che la sensazione di vuoto incolmabile che lamentano spesso i pazienti più gravi corrisponda, in verità, a un troppo pieno rappresentato dal buco Reale delle esperienze traumatiche.
Parlando di crisi della relazione con la parola, Lacan definisce il trauma con un neologismo: “troumatisme” (trou in francese significa “buco”)[3]. Incontrare un trauma è, quindi, incontrare un buco, un’assenza; un’impossibilità di descrivere in modo accurato e soddisfacente il trauma stesso. In un primo tempo il trauma ci coglie sempre impreparati, si è in una condizione passiva, ed è il momento della «entrata inconsolabile nell’anima». Divampa, quindi, con la sua luce accecante il Reale inafferrabile e le parole non arrivano con la loro forza a catturare l’ingovernabile. Il soggetto è muto davanti al trauma.
Ma bisogna fare una distinzione fra traumi strutturanti e destrutturanti. I primi sono necessari per l’evoluzione del cucciolo uomo, come il trauma benefico del linguaggio a cui si collega una catena di traumi separativi dal corpo della madre, fondamentali per la formazione del soggetto. Si tratta di traumi che umanizzano la vita, che rendono la vita umana abitata dalla mancanza e quindi, in quanto tale, dal desiderio. I secondi, invece, sono i traumi che incontriamo nella clinica, che possono avere una portata soverchiante e originare diverse forme di sofferenza psichica.
E qui giungiamo al focus: una contingenza può essere traumatica nella misura in cui è impedita la sua simbolizzazione. L’esperienza clinica ci insegna che non c’è un evento traumatico “in sé”: ciò che lo rende traumatico è l’impossibilità di simbolizzarlo. Ciò che emerge è che il concetto di trauma ha molteplici definizioni; ci sono differenze, per esempio, fra i traumi d’abbandono e quelli d’abuso o maltrattamento, quelli subiti da mano umana e quelli dovuti a catastrofi naturali. Declinazioni che, per quanto un evento in sé non possa definirsi a priori traumatico, hanno implicazioni specifiche e distinguibili[4].
Un’altra differenziazione importante è quella fra trauma reale e trauma “fantasmatico”, che considera il fantasma come la costruzione di un mito che orienta la vita dell’individuo e che ha una funzione di protezione che lo difende dall’impatto con il Reale del trauma. Quando si verifica una caduta della copertura fantasmatica e il velo si squarcia, si producono momenti di angoscia. L’angoscia può generare processi di trasformazione, se adeguatamente elaborata, per esempio in un percorso analitico. Il fantasma fornisce una sorta di cornice, immaginaria e simbolica, è uno schermo protettivo che può indurre tuttavia a un assopimento. In presenza di accadimenti traumatici il vacillamento del fantasma può provocare bruschi risvegli: «l’incontro con il reale è ciò che ci sveglia dal sonno della realtà»[5].
La psicoanalisi all’inizio si è molto occupata del trauma fantasmatico, non perché non tenesse in considerazione la realtà “oggettiva” dell’accaduto, ma perché ha insistito anche sulla fantasmatizzazione soggettiva dell’individuo. Al contrario, alcune teorie psicoanalitiche contemporanee hanno messo l’accento solo sul trauma reale, rischiando di considerare trauma solamente l’evento accaduto nella realtà e considerandolo come un deficit.
Oltre all’inconscio rimosso e al preconscio va riconosciuto a Freud il merito di aver intuito l’esistenza dell’inconscio non rimosso. Freud sottolinea, infatti, l’importanza di estendere l’inconscio a una parte dell’apparato psichico più primitivo dell’inconscio dinamico, che sembra avere a che fare con l’esperienza sensoriale associata alla percezione della realtà esterna.
Si tratta, quindi, di un nuovo vertice di osservazione che mette in discussione l’idea che esista un modello di intervento unico e adeguato a tutte le condizioni psicopatologiche, o che l’intervento psicoanalitico possa ridursi a poche articolazioni tecniche, come per esempio l’interpretazione, che nonostante sia efficace per alcuni pazienti, in particolar modo per quelli con un’organizzazione nevrotica di personalità, è del tutto inutile per i pazienti gravi, nei quali non il rimosso e il ritorno del rimosso, ma la compromissione delle capacità di mentalizzazione e di regolazione emotiva rappresenta il fulcro del loro funzionamento mentale.
Diversamente dall’idea di un deposito in cui vengono raccolti contenuti rifiutati dalla coscienza, per Bion l’inconscio è una funzione della mente; il riferimento è alla funzione alpha, una sorta di metabolizzatore psichico che permette di trasformare le esperienze sensoriali (elementi beta) in contenuti psichici (elementi alpha).
Interessante è anche la posizione di Franco De Masi che, in uno dei suoi testi più riusciti, articola un interessante discorso sull’“inconscio emotivo-ricettivo”, spiegato come un sistema mentale deputato alla ricezione e alla simbolizzazione di stati affettivi e all’utilizzo della funzione di comunicazione emotiva intra e inter-psichica. Per De Masi lo sviluppo dell’inconscio emotivo-ricettivo non è automatico, ma necessita di un ambiente relazionale emotivamente supportivo, ovvero «orientato alla ricettività e alla restituzione da parte della figura materna delle sue (del bambino) prime proiezioni comunicative. Grazie al fatto di essere trattato come una persona, il bambino è inserito gradualmente nel mondo umano dei significati, ed è in grado di diventare a sua volta un essere capace di dare senso alle proprie esperienze, di comprendere i propri simili e di comunicare con loro»[6].
Se emotivamente supportive, quindi, le relazioni primarie caregiver-infante favoriscono lo sviluppo sia dell’inconscio emotivo-ricettivo, sia successivamente dell’inconscio dinamico. Una volta maturi, i due inconsci lavorano in parallelo: l’inconscio emotivo-ricettivo captando e comunicando le emozioni dell’inconscio dinamico, che le trasformerà in rappresentazioni passibili di rimozione. «Il soggetto prima registra le emozioni inconsapevolmente e poi le rende inconsce se sono ritenute incompatibili… La rimozione può avvenire solo in quanto un’emozione è stata registrata precedentemente, ossia se esiste un inconscio che entra in azione ancor prima dell’inconscio dinamico»[7]. Secondo questo modello, quindi, l’inconscio emotivo-ricettivo costituisce la premessa necessaria perché possa operare l’inconscio rimosso.
In conseguenza di ciò, se è vero che l’inconscio non rimosso ha a che fare con la dimensione emotiva e non verbale, è altrettanto vero che la relazione del bambino con il genitore prende vita all’interno di un mondo segnato da una rete di significanti che attengono alla natura immanente dell’uomo, che si declina nel suo essere un animale dotato di parola, un “parlessere”[8].
Il riferimento alla parola è quindi un aspetto importante poiché delinea una differenza sostanziale rispetto a chi considera l’inconscio non rimosso come un inconscio impersonale, assimilandolo per questo motivo all’inconscio collettivo descritto da Jung[9]. Quindi, se da un punto di vista descrittivo l’inconscio collettivo è non rimosso, non lo è da un punto di vista dinamico, in virtù del rapporto dell’inconscio non rimosso con la coscienza e la memoria dell’esperienze sensoriali che hanno segnato la relazione del bambino con l’ambiente sociale “vero”.
Corpo e inconscio non rimosso sono correlati in maniera significativa, non solo per il precoce sviluppo dell’inconscio non rimosso, ma anche perché in questo inconscio vengono elaborate le esperienze emotive che passeranno poi ai livelli superiori dell’apparato psichico. In questa prospettiva, il corpo rappresenta una sorta di schermo in cui rimangono impressi i vissuti sensoriali esperiti dal soggetto lungo tutto l’arco della sua vita: parliamo quindi di Reale del corpo, un corpo inteso a sua volta come sistema biologico, affettivo e simbolico. Ma i tre modi di intendere il corpo non sono né antinomici né l’uno alternativo all’altro, bensì elementi di uno stesso insieme, fra loro interconnessi in modo imprescindibile, anche se è il sistema simbolico che può esprimere metaforicamente (cioè simbolicamente) intenzioni, motivazioni, desideri e fantasmi inconsci.
Possiamo collocare però l’inconscio non rimosso nel corpo affettivo; è più puntuale e opportuno dire che l’inconscio non rimosso è in rapporto diretto col corpo affettivo, ma mediato per via della memoria implicita col corpo biologico, e per via dell’inconscio rimosso col corpo simbolico. Quello che si può affermare con certezza, quindi, è che l’inconscio non rimosso è un inconscio corporeo; in esso le informazioni percepite vengono tradotte in immagini sensoriali, definibili nel linguaggio psicoanalitico fantasie primarie inconsce.
Il lavoro clinico dovrebbe essere focalizzato sulla co-costruzione degli inconsci nel caso dei pazienti gravi, e sull’elaborazione consapevole di contenuti rimossi nel caso delle nevrosi. Che si tratti di pazienti nevrotici o non nevrotici, il clinico dovrebbe comunque seguire un percorso di tipo “bottom-up”, sintonizzandosi con il loro mondo emotivo inconscio. La sintonizzazione è il risultato di una comunicazione inconscia che coinvolge innanzi tutto l’inconscio non rimosso sia del paziente che dell’analista.
Quello che possiamo fare come analisti, dunque, è stare col paziente «senza memoria e senza desiderio», come diceva Bion[10], ispirati all’etica di un lavoro in cui non abbiamo altri strumenti per intervenire se non il nostro mondo emotivo, in un clima di fiducia e alleanza terapeutica. L’unico obiettivo perseguibile diventa così la co-costruzione, un processo relazionale in cui i mondi interni del paziente e dell’analista sono in un rapporto di assoluta reciprocità; si tratta di un processo di “simmetrizzazione” emotiva a cui deve però succedere l’asimmetria di una relazione in cui l’analista è chiamato, in qualità di «soggetto supposto sapere»[11], a riflettere su quanto avviene nel campo analitico. È importante, quindi, che ci sia una continua oscillazione fra simmetria e asimmetria, in modo tale che l’analista sia messo nelle condizioni di poter operare analiticamente, cioè riflessivamente e consapevolmente. In mancanza di questa oscillazione non vi può essere co-costruzione, ma solo una «folie a deux»[12].
La tendenza a rimanere in un atteggiamento di simmetria col paziente, a lungo andare, è non solo terapeuticamente inefficace, ma col tempo anche dannoso per il paziente. Dove c’è confusione di ruoli, si finisce col saturare gli spazi relazionali, rendendo impossibile qualsiasi co-operazione e, di conseguenza, la co-costruzione dei vissuti emotivi, che nella clinica con pazienti difficili e gravi dovrebbe rientrare all’interno di un intervento più supportivo, fatto di contenimento e modulazione delle emozioni traumatiche evacuate dal paziente nel campo analitico. Questo è ciò che permette di riorganizzare, per quanto possibile, in rapporto al livello di gravità dello stato di salute mentale del paziente, alla sua età e alla sua struttura difensiva generale, l’inconscio non rimosso prima e l’inconscio rimosso successivamente.
È importante tenere a mente che nel lavoro clinico con i pazienti difficili il campo analitico diventa esso stesso un elaboratore dei loro vissuti emotivi traumatici; per questa ragione con pazienti più difficili il linguaggio non verbale e gli atti non interpretativi sono di assoluta importanza rispetto all’interpretazione verbale. Il contenimento emotivo da parte dell’analista, operato all’interno del campo relazionale (da non confondere con un atteggiamento di comprensione quasi passiva in cui non viene posto alcun limite al godimento del paziente), contribuisce quindi a creare uno spazio relazionale e trasformativo.
Se nella clinica della nevrosi abbiamo la possibilità, dunque, di verificare l’esistenza dell’Altro in quanto costruzione che permette al soggetto di posizionarsi (fantasmaticamente) rispetto alla propria esperienza del Reale, nella clinica dei pazienti traumatizzati siamo di fronte, invece, a un disfunzionamento dell’Altro che, invece di configurarsi come un Altro strutturato, si presenta come uno sciame di significanti che non permette al soggetto di appoggiarsi alla trama dell’Altro per assumere una posizione di fronte al trauma del Reale. Nella clinica quotidiana con questa tipologia di pazienti è quindi molto importante la dimensione pragmatica e relazionale dell’incontro terapeutico per rendere possibile la lenta trasformazione custodita nel Reale del sintomo.
Bibliografia
Bion, Wilfred: “Cogitations” - trad. it. Armando Editore, Roma, 1996
Craparo, Giuseppe: “Inconsci, coscienza e desiderio. L’incertezza in psicoanalisi” - Carocci, Roma, 2015
Craparo, Giuseppe: “Inconscio non rimosso. Riflessioni per una nuova prassi clinica” - Franco Angeli, Milano, 2018
De Masi, Franco: “Lavorare con i pazienti difficili” - Bollati Boringhieri, Torino, 2012
Jung, Carl: “Gli archetipi dell'inconscio collettivo” - trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1977
Lacan, Jacques: “Il Seminario VIII - Il transfert” - trad. it. Einaudi, Torino, 1961
Lacan, Jacques: “Il Seminario XX - Ancora” - trad. it. Einaudi, Torino, 1972
Lacan, Jacques: “Il seminario XXI - Les non dupes errent”, febbraio 1974, inedito
Lacan, Jacques: “Il seminario XXIII - Il sinthomo” - trad. it. Astrolabio, Roma, 1975
Porta, Laura: “Declinazioni del trauma” - Franco Angeli, Milano, 2023
Recalcati, Massimo: “L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica” - Raffaello Cortina, Milano, 2010
Terminio, Nicolò: “L’intervallo della vita. Il reale nella clinica psicoanalitica e fenomenologica” - Alpes, Roma, 2020
[1] “Il Seminario XX - Ancora” – trad. it. Einaudi, Torino, 1972
[2] “L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica” – Raffaello Cortina, Milano, 2010
[3] “Il seminario XXI - Les non dupes errent”, febbraio 1974, inedito
[4] Cfr. L. Porta: “Declinazioni del trauma” – Franco Angeli, Milano, 2023
[5] M. Recalcati, op. cit.
[6] “Lavorare con i pazienti difficili” - Bollati Boringhieri, Torino, 2012
[7] Ibidem
[8] J. Lacan: “Il seminario XXIII – Il sinthomo” – trad. it. Astrolabio, Roma, 1975
[9] “Gli archetipi dell'inconscio collettivo” - trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1977
[10] “Cogitations” – trad. it. Armando Editore, Roma, 1996
[11] J. Lacan: “Il Seminario VIII - Il transfert” – trad. it. Einaudi, Torino, 1961
[12] Ibidem