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Dott. Angelo Villa

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Trauma e digitale

2025-02-04 01:36

di Stefano Magni

FORT-DA numero 4/2025,

Trauma e digitale

Trauma e digitale di Stefano Magni

Il titolo stesso di questo breve contributo, procedendo attraverso il semplice accostamento dei due termini, tradisce l’inziale l’imbarazzo nel dipanare l’intreccio che il binomio può suscitare: tale da poter essere solo abbozzato in queste poche righe, per una doverosa recusatio verso qualsivoglia pretesa di parola ultima, che da umile filosofo so bene essere un miraggio.

Nondimeno, la pura congiunzione garantisce una certa simmetria, attraverso cui soppesare e bilanciare i due lemmi: per circoscriverne innanzitutto le rispettive aree semantiche, e di qui sondarne risonanze ed oscillazioni nella pervasiva traslazione verso la nuova dimensione “ontologica” digitale.

Certo traumatica, in quanto di rivoluzione epocale trattasi”[1]

Per quanto poi sussumere ad un “evento” primariamente tecnologico il carattere rivoluzionario sia già di per sé forse sintomatologico di una erronea comprensione del fenomeno “tecnico”: letto distopicamente quale “esogena” sventura che si abbatte a sradicare l’uomo dalla primigenia idilliaca natura di buon selvaggio[2]- cosa che sappiamo bene essere quanto di più lontano dal vero!

Siamo umani nell’essere tecnici, questa la proposizione da cui incamminarsi: a ricordare come sia proprio Edipo- reo per Aristotele di amartia la colpa di osare chiedere di quella origine che ci è negata- a destinarci nel bastone alla tecnica sciogliendo l’enigma della Sfinge.

Una protesi a sostenerci nella sera della vita, quando la debolezza ontologica bussa più forte

Una protesi figlia della tecne che Prometeo con Atena ci dona, per rimediare all’imbecillità di una natura fragile ed effimera, lemma con cui il pensiero greco dice la nostra “transeunte” e limitata natura: ef-femoros, che dura il volgere di un giorno, se contrapposta all’eternità del divino.

Esposta al limite dell’univoco turn on/off che nessuna macchina può emulare: ad una fine che diviene fine, inteso quale telos, con cui consegnare la salma del defunto alla propria verità nel coprirne il volto con un velo[3], a svelare il senso di quell’ek-sistere.

Letta in senso esistenzialista il nostro ek-sistere è questo stare fuori, pro-gettandosi [4] all’”ad-ventura [5]“in quel mundus [6]che la tecne, ed il linguaggio prima, rendono “abitabile” pre-disponendolo per noi: in una stratigrafia tecnologica tale da promettere oggi di traguardare quel destino di automazione che è poi la finale destinazione della tecnica.

A liberarci dalla fatica, oggi financo del pensare, nell’automazione di oracoli algoritmici ed ora AI generativa.

Uno stare “in tra” che ci vede “ontologicamente” parificati, nella produzione e nel consumo di dati, a sensori, attuatori, agenti inforg: perdendo così l’ultimo tassello della presunta supremazia antropocentrica- quella ontologica- nel divenire un nodo di questa rete connettiva globale e multisistemica.

Dove sempre più spesso all’uomo resta il ruolo “spettatore gaudente”, o presunto tale per dirla con Baudrillard: agitando nel Vuca [7]theatre contemporaneo i fantasmi del trogolo consumistico o di un capitalismo della sorveglianza che le mille asimmetrie, in primis visive a dispetto dell’inno alla futile trasparenza, palesano.

Questo un indubbio primo trauma del digitale.

Una ferita al “nostro egocentrismo”, che prima la rivoluzione copernicana aveva straniato dall’essere centro del mondo, per consegnarci alla lateralità cosmologica, e che poi Darwin aveva colpito nell’unicità di specie con la teoria dell’evoluzione: per assestare con Freud il terzo shock, sconvolgendo le fondamenta dello stesso Soggetto, “ospite” in casa propria.

Un trauma che il digitale però ben dissimula, andando nella discretizzazione di 0 ed 1 a rincorrere il “reale” analogico in quanto altro poi non sia che una iperbolica isteresi: un fenomeno, di carattere scientifico, con cui è da intendersi il sopravvivere delle cause all’effetto, in una osmotica datificazione registrante[8] che porta dritta alla infinità sovraccarica di pletoricità che la cornucopia digitale promette.

Nell’instaurarsi mellifluo del paradigma del dito e del calcolo, dal digitus e dal calcolemus leibniziano, il digitale finisce però per espungere proprio quanto del trauma abbia la forma e la valenza: puntando all’omoios, all’omologo, alla mera discretizzazione logico formale di quell’insondabile e sempre sfuggente “co-agitarsi” di cui molto è stata perso nel “tradurre semplificato” il cogito cartesiano.

Le tecnologie digitali in cui siamo immersi esercitano infatti un carattere fortemente prolettico: tendono ad anticipare l’ad-venire, spostando mellifluamente il baricentro del presente verso il futuro.

Staccandolo da un passato di cui si fatica a riconoscere il retaggio e il senso, e che si esaurisce spesso in nudo accumulo: da cui diviene difficile traslare sul presente l’orizzonte del vivere.

La tecnologia digitale sembra così colpire il cuore della nostra “responsività”: quel tratto che differenzia immancabilmente l’umano da quell’automa la cui presenza mai come ora sembra incarnarsi, al crocevia dei prodigi di Ai, Biotecnologie, Automazione industriale.

Siamo con Waldenfall un “essere in risposta”[9]: quella risposta che oggi, nella foga iperbolica che l’accelerazione tecnologica dispiega, finisce preda di una soffocante chiamata in causa, che dal marketing diviene engagement con relativi KPI, e che punta puta caso alle famigerate journey frictionless!

Un mondo dove si scollano categorie analogiche secolari, in un “taglia ed incolla” con cui attraverso il digitale il reale viene re-ontologizzato: non trattandosi semplicemente di una re-ingegnerizzazione o di una ristrutturazione, ma di una modifica radicale della sua natura intrinseca ontologia, tale da comportare di conseguenza una ri-epistemologizzazione della modernità[10].

Una riconfigurazione, dove l’infosfera compenetra il “mondo reale” portandoci onlife: modificando il nostro spazio per “avvolgerlo” attorno alle tecnologie smart.

 

Straniando però la “tenuta temporale”: quell’armonia nevralgica al microcosmo individuale per collegarsi al macrocosmo sociale, su cui tanto la Scuola di Francoforte ha insistito.

Il tempo stesso sembra infatti cortocircuitare, nell’eccesso e nella ebbrezza tecnologica che distende e pro-tende il presente nel futuro, comfortizzando nella pre-visione e nella pre-veggenza delle risposte algoritmico-oracolari: producendo alienazione sociale, sottoforma di smarrimento ed individualismo cieco e spietato.

Questa la ferita del tempo, in quel motivo cardine che si irraggia nella filosofia del Novecento da Bergson ad Husserl e Heidegger: nell’ opporne uno proprio, soggettivo ed interiore, autentico ma incomunicabile, ad uno misurabile, oggettivabile e spazializzabile, ma inautentico e “disumano”

Un tempo che oggi viene messo ulteriormente in tensione, a causa dell’allargarsi dell’asimmetria che ci consegna al mondo: da un lato la sproporzione delle possibilità che la nuova tecne dispiega, dall’altro la povertà “intima” dell’esperienza cui il Soggetto è consegnato

Viviamo così l’apice della patogenesi della temporalità: dove l’accelerazione si materializza nellì ipertrofica tensione infuturante, che diviene cannibalica aspettativa del desiderio mercificante capitalistico.

Proteso verso un Nuovo tanto osannato quanto poi espunto dall’ orizzonte, per scivolare frictionless[11] verso lo stereotipato.

Un tempo che non istiga alcun avvento,[12] e restringe progressivamente lo spazio di esperienza: uccidendo nella spinta che ci assolda nel regime di mercificazione costrittiva: dove il possesso aptico di un mondo levigato lo svuota di storia, negando l’Handeln.

Il porre un inizio - con cui per la Arendt si dà il verbo della storia.[13]

Senza l’opposizione salvifica e traumatica del Negativo, mancando la dialettica del superamento, anche la “Storia” viene tradita: da una dromomania che fagocita e totalizza l’Immaginario, dove svaniscono il Dolore e la Morte

Differita in un Tempo indistinto dove, sociologicamente parlando, pare ad esempio si rifugga dai traumi del tempo

Dall’ invecchiare, ostentando giovanilismi patinati: mentre il pletorico ed ossessivo accumulo di dati illude di trattenere nell’immagine la vita, rendendo ancor più ostico quel doveroso “obliare” che in ogni distacco l’elaborazione del lutto richiede.

 

La crepa, la frizione, la stasi, Il vuoto: quanto rechi traccia della singolarità dell'Altro e la reclami, sembra collidere con la circolazione programmaticamente accelerata di informazioni e capitali, che vivono di una aspettativa inflazionata ed un’esperienza tragicamente deflazionata.

Così il tempo sfugge, come un miraggio, oasi nel deserto di dati e ambienti appiattiti nella sensorizzazione che, discretizzando, cerca di limitare ogni possibile inciampo: colmando in anticipo ogni vuoto.

Per questo sfuggono alla nostra portata tanto il tempo e quanto lo spazio per agirlo: andando Altrove rispetto alla nostra disposizione, nel rimandarci all’amletiano “Time is out of joint[14]”,[15]

Come il principe danese, dannatamente obbligati a rimettere nei cardini un tempo perturbato dove l’azione si perde nel giardino di Armida degli ingaggi, per questa o quella “experience”, che nella multicanalità digitale si arricchisce di virtualità ed ibridazione, ma spesso latita clamorosamente proprio nell’offrire quella meraviglia che, nel chiudere, proprio al trauma allora accosto.

Nella medesima vocazione al “thuamazein” greco, un arresto, uno sbigottimento” uno sgomento che segna un vuoto.

Quella cesura da cui nasce proprio la filosofia, come domanda di senso: tanto per Aristotele quanto per Platone.

Perché la vita è traumatica, e nasconderlo in una bolla accomodante di stordimento tecnologicamente pacificante, che ci faccia scorrere sulla patina di un reale ibrido e mellifluo, appiattito nella connettività orizzontale di presunte libertà per la libertà- senza vincoli ne limiti, soglie e segreti, dogane e dazi- può risultare ancora più traumatico della dura pietra del reale!

Che taglia e ferisce, ma scandisce nel Tempo la possibilità di cogliere e disegnare quel ritaglio di mondo da cui guardare all’Altro.

Sapendo quanto possa essere traumatico l’incontro, nella Differenza e nell’Alterità che comporta: nel “pollachos”[16] aristotelico di un mondo dove il trauma ancori ancora il Soggetto a chiedersi di sé, per non scorrere via nel solo tempo “cronologico” e in stereotipate e forzose inclusioni.

 


 

[1] Il riferimento è a Luciano Floridi, che con il proprio lavoro sta contribuendo a diffondere la filosofia del digitale, a partire da tematiche che ne evidenziano il carattere “rivoluzionario”

[2] Di chiara marca rousseauno

[3] Detto appunto telos in una antica attestazione che ne considera l’uso in questa etimologia

[4] Da proballein greco: pro-tendersi, slanciarsi in avanti

[5] Ad-ventura: letteralmente, dal latino, verso le cose a venire

[6] Mundus nell’etimologia latina dice di qualcosa di lindo, pulito, sistemato per

[7] Acronimo inglese che dice di Volatilità, Incertezza, Complessità  ed Ambiguità

[8] Mi richiamo qui alla lettura di M. Ferraris, che sottoliena come la Infosfera Floridiana si fondi su una Biosfera e Docusfera

[9] Condensando nell’espressione quanto Waldenfall spieghi a cavallo di ermeneutica, filosofia, psicanalisi

[10] operata direttamente dall’influsso del digitale nelle pratiche quotidiane, di conoscenze e idee consolidate e sinora stabili che si scollano, a partire dal binomio  pensiero ed azione, stante Ai sia certo agire intelligente e non pensare intelligente, per un preliminare chiarimento  a margine, oppure presenza e posizione, dove Il digitale ha provocato una frattura: posso essere fisicamente in un luogo, ma connesso altrove attraverso la tecnologia digitale per una presenza ubiquità ed “immediata

[11] Desumo l’utilizzo del termine, a mio avviso cruciale per comprendere la fenomenologia del digitale, dalla riflessione di Byung Chul Han: approfondisco il concetto successivamente, rimandando alla bibliografia per una dettagliata visione.

[12] Non pare infattti essersi ad esempio avverato il Progetto come redenzione che ad esempio alimentava la ricerca di Flusser: anzi, il progetto umano si rivela una costrizione, scadendo in una società della prestazione che porta ad isolamento, e non ad una società di amore per il prossimo in cui realizzarsi reciprocamente: il Sè da Progetto scade a proiettile, come evidenzio in seguito servendomi della lettura di  Vilem Flusser attraverso i riferimenti a Paola Bozzi e il suo Vilem Flusser “Dal soggetto al progetto: libertà e cultura dei media”” Utet Università, 2011

[13] Hannah Arend Vita activa, Bompiani, Milano 2000.

[14] Wiliam Shakespeare, Amleto Atto I scena 6, 186–190

[15] Giacomo Marramo Kairos, Apologia del Tempo Debito, Bollati Boringhieri, pag 17

[16] Da intendersi quale il molteplice e poliedrico reale

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