Il transfert è la porta di entrata e la porta di uscita dell’analisi, è dunque, come ci indica Lacan nella sua svolta del ‘64 con il seminario XI, uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi. Come dire, è un punto cardine, essenziale, necessario; senza di esso non c’è analisi e pertanto non si potrebbe parlare di psicoanalisi in termini di trattamento terapeutico. Dunque, per usare le parole di Freud, “mettiamo per prima cosa in chiaro che la traslazione insorge nel paziente sin dall’inizio del trattamento e rappresenta per un certo tempo il suo fattore più intensamente propulsivo”.
In Dinamica della traslazione (1912), si legge che per avanzare sul discorso del transfert è bene tener conto di due punti essenziali, cioè in che modo si instaura “necessariamente” e in che modo viene ad “assumere la funzione che ci è nota durante il trattamento”.
La base di partenza in un’analisi – che è quello che permetterà a Lacan di affermare che non è un concetto di creazione bensì di formazione, cioè qualcosa che ha a che fare con ciò che si modella, piuttosto che con ciò che sbuca dal nulla, che nasce da zero –, il nocciolo su cui si poggia una cura analitica, dicevamo, lo troviamo riferito nelle parole di Freud quando scrive:
[…] ogni uomo ha acquisito, per l’azione congiunta della sua disposizione congenita e degli influssi esercitati su di lui durante l’infanzia, una determinata indole che caratterizza il modo di condurre la vita amorosa, vale a dire le condizioni che egli pone all’amore, le pulsioni che con ciò soddisfa e le mete che si prefigge.
In altre parole, questo vuol dire che si lavora con ciò che già c’è. Col grumo libidico con cui il soggetto affronta le relazioni significative, importanti, cioè, sottolineiamo, con “le condizioni che egli pone all’amore”, scrive Freud, “le pulsioni che con ciò soddisfa e le mete che si prefigge”. Diciamo dunque che, abbiamo a che fare con un complesso di cose condensate in ciò che chiamiamo transfert, o investimento libidico verso un oggetto, che nel corso dello sviluppo evolutivo del soggetto ha preso, inevitabilmente, o necessariamente, appunto, la forma di un cliché, o più di uno, che sarebbe dunque una modellatura delle forme di amare del paziente con cui si presenta alla porta dell’analista.
La teoria che formalizza tutto questo complesso di cose nel transfert è stata, da parte di Freud, sicuramente una scoperta senza precedenti. Una scoperta nel senso proprio di aver colto in questo complesso quei meccanismi sottostanti tale forza propulsiva, sapientemente poi messi in funzione nell’analisi. I primi che hanno osato scansare la tendina dell’inconscio dei loro pazienti, ne sono stati inaspettatamente investiti – investiti cioè da questo fascio pulsionale, da questa forza amorosa –, riportando, come è noto dalla letteratura, interruzioni nei trattamenti o, come in alcuni casi, incresciose conseguenze. Essi si sono trovati alla stregua di quei fisici sperimentali che per primi cominciarono a maneggiare i nuclei radioattivi dell’atomo, e che per causa di questa esposizione ne hanno subito le nefaste contaminazioni.
Ovviamente, questa faccenda del transfert, questo nucleo radioattivo, non è certamente qualcosa che è stato inventato o messo a punto da Freud, ma è un processo spontaneo, che avviene in modo naturale, seppur confacente ad una certa messa in funzione, i quali meccanismi ne rivelano la sua artificiosità. Il transfert, in altri termini, questa spinta affettiva con cui un soggetto investe un suo interlocutore, in posizione di Altro, non è certo prerogativa esclusiva della psicoanalisi, ma a Freud va il merito di averlo interrogato, di averlo messo in forma e soprattutto di averlo messo al servizio della cura. Cioè Freud ha colto che in esso è presente il meccanismo del funzionamento dell’amore e ha inteso che questa è la leva che mette in moto e fa esistere la cura della parola, che altrimenti non sarebbe altro che pura chiacchiera, che possa anche delle volte essere più o meno intelligente e perspicace, ma poco utile al fine di una guarigione. Una cosa è chiara, per curare ciò che è fonte di sofferenza bisogna entrare in rapporto con ciò che è causa di questa stessa sofferenza, cioè causa di insoddisfazione, di frustrazione e di mancanza. Ciò detto, con un colpo di genio e di raffinatissima eleganza, Freud, in un’espressione diventata celebre nella letteratura psicoanalitica, riferisce che i “[…] fenomeni di traslazione […] rendono il servizio inestimabile di rendere attuali e manifesti gli impulsi amorosi, occulti e dimenticati, dei malati. Infatti, checché se ne dica, nessuno può essere battuto in absentia o in effigie”.
L’esperienza analitica del transfert produce una formalizzazione del cliché dell’altro, che si presentifica nell’attualità della vita del paziente, e con cui bisogna riprendere le fila di un certo discorso. Questo passaggio, dall’altro all’Altro, nell’ottica della logica lacaniana, lo pensiamo nei termini di un percorso ascensionale che dall’immaginario va in direzione del simbolico. Ascesa che deve avvenire (primo punto), e per avvenire bisogna ridurre al minimo possibile gli intoppi, che ostacolerebbero questo stesso processo di elaborazione (secondo punto). Da un lato quindi l’analista col suo desiderio si fa oggetto affinché il percorso proceda e il discorso si dispieghi, e dall’altro, così facendo, evitando di dare seguito al suo controtransfert, riduce al massimo i pericoli dell’impasse; osservazione questa che è stata più volte puntualizzata secondo questa modalità dallo stesso Freud, come ad esempio, in Osservazioni sull’amore di traslazione (1914) si legge che: “Non sempre ci si domina al punto da non trovarsi improvvisamente, un momento o l’altro, oltre i limiti che ci si era prefissati. Penso perciò che non si debba abbandonare quella impassibilità a cui si è pervenuti trattenendo la controtraslazione”.
Abbiamo detto che il paziente si presenta alla porta dell’analista con già qualcosa di predisposto, con già l’intenzione di domandare a qualcuno qualcosa sul proprio essere, ma sotto quale forma questo qualcosa fa la sua comparsa in seduta? Fa la sua comparsa nel modo inaspettato di ciò che Freud ha definito come una resistenza, cioè come qualcosa che in un certo modo rompe i placidi piani del terapeuta:
Credevamo di esserci resi conto di tutte le forze pulsionali che entrano in gioco nella cura, di aver completamente razionalizzato la situazione esistente fra noi e il paziente, così da poterla controllare come un’operazione aritmetica, ed ecco che sembra insinuarsi qualcosa che non è stato previsto in questo calcolo.
Dunque il transfert è in un primo momento irruzione, così come è descritto in modo eloquente da Freud nei suoi primi scritti in cui tratta l’argomento: “[…] improvvisa irruzione di un elemento reale”, sorgere di una “tumultuosa esigenza d’amore”; e in un secondo momento è leva. Potremmo suddividere questi due aspetti del transfert secondo la sistematizzazione che ne ha fatto in seguito Lacan, ovverosia, il transfert è in un primo momento solo immaginario, piano in cui si giocano le dinamiche di seduzione, dove il terapeuta è sollecitato ad abbondonare la sua posizione di alterità per scendere su di un piano più prettamente paritetico; e in un secondo momento è simbolico, piano ovvero dove si installa la dimensione della questione: cioè la domanda d’amore sottostante alla richiesta di cura assurge a domanda che riguarda la questione in cui è implicato il proprio essere, in quanto mancanza ad essere, di cui tanto si soffre.
Dicevamo dunque che il procedimento di riferire le proprie sofferenze nell’espressione della parola, ad un certo punto subisce una brusca battuta di arresto: vi è una resistenza, qualcosa palesemente si è messo di traverso, intralciando il cammino che contrariamente andrebbe spedito nel suo libero svolgimento. È un fenomeno, pertanto, che con le dovute condizioni avviene da sé, ciò significa che deve esserci un presupposto alla base del suo innesco. C’è un pre-, una disposizione ad amare, c’è già un modo di essere innamoranti in attesa di amare. L’irruzione è il prodotto di un cliché che il paziente, in quanto soggetto incagliato nelle faccende dell’amore del suo desiderio infantile, ripete incessantemente nella vita. È una ripetizione di ciò che al tempo non ha trovato la via della sua realizzazione, del suo sviluppo, del suo sbocco, pertanto si è resa necessaria un’altra strada, scrive Freud:
[…] soltanto una parte di questi impulsi che ha determinato la vita amorosa ha compiuto il processo dell’evoluzione psichica nella sua interezza; […] un’altra parte di questi impulsi libidici è stata frenata […] e ha potuto dispiegarsi soltanto nella fantasia o è rimasta interamente sepolta nell’inconscio.
Questo mancato dispiegamento evolutivo degli impulsi libidici, divenuti strumenti acerbi nelle disposizioni della personalità cosciente e dunque resi al servizio della realtà, comporta che questo bisogno di amore non appagato continui a riproporsi incessantemente ad ogni persona significativa che incontra, riproposizioni che Freud indica come rappresentazioni libidiche anticipatorie: è logico dunque che tale “[…] investimento libidico, parzialmente insoddisfatto, tenuto in serbo con aspettative dell’individuo, si rivolga anche alla persona del medico”. Ora, gli impulsi libidici, gli impulsi amorosi vengono risvegliati dall’incontro con l’altro e grazie a questo messi in campo facendo sì che l’innamoramento inespresso finisca per dare un contributo alla guarigione. Pertanto, “si tratta di un fenomeno che sta nella più intima connessione con la natura stessa della malattia”, cosicché esso stesso risulti essere il grimaldello della cura, quella lenza a cui è attaccata l’esca che una volta abboccata si tira su per tirare fuori la preda dal suo stagno. Questo investimento procederà da uno dei cliché esistenti o inserirà il terapeuta in una delle serie psichiche che il paziente ha formato sino a quel momento.
Perché tutto questo? – Perché in psicoanalisi si cura con l’amore, con la struttura dell’amore, che fa di un uomo un essere mancante; che fa protendere pertanto quest’uomo verso il punto che a lui manca o per meglio dire verso colui che si è supposto possedere il nocciolo, il segreto, di questa parte mancante, la cui mancanza è foriera di tensione insopportabile che sfocia in dolore e in sofferenza.
Cosa c’è in causa? – Al fondo della relazione analitica, al punto più estremo, troviamo il fatto che per la natura del transfert ciò che gli manca lo apprenderà in quanto amante.
L’amore dunque è il grande protagonista di un lavoro di analisi, e nel modo con cui fa la sua entrata in scena è insita una certa ambiguità: esso, come è accaduto a Dora, entra nel discorso analitico in primo luogo come un dato dell’esperienza del paziente. Chi va in analisi ad un certo punto, rotti gli indugi dei convenevoli iniziali, cioè i soliti problemi di autostima e insicurezza da rimettere a posto, il paziente comincia a parlare di amore, del suo modo di amare, o per meglio dire del suo modo di vivere l’amore. L’amore dunque si presenta presto come un sintomo, con il suo lato problematico che necessita di essere parlato. Ecco che, nel momento in cui si palesa questo bisogno si palesa anche tutta l’ambiguità insita in questa apertura, spunta “come un ospite imprevisto” l’amore per il suo analista. Un amore attuale, contingente alla situazione che si sta vivendo con il proprio analista. L’amore, come oggetto del lavoro di deciframento, riappare inspiegabilmente all’altro capo del filo.
L’amore in analisi va dunque interrogato secondo la doppia faccia con cui si presenta, cioè l’amore come elemento caratterizzante della vita del paziente, oggetto di decifrazione del lavoro analitico, e l’amore in quanto presente nella contingenza dell’incontro con chi di questa decifrazione allo scopo di guarire è stato imputato, incaricato. In altre parole, di questo arduo ufficio qualcuno di eminentemente all’altezza di tale elevato compito è stato investito. Questo artificio ci permette di snidare i segreti di un congegno che si svela essere tale in ragione del fatto di poter essere riprodotto in laboratorio. Dunque, è paradossale scoprire che, è proprio l’amore il mezzo che permette a esso stesso di svelare i propri inganni e impedimenti, in altre parole, è per mezzo dell’amore che si può arrivare a dire la verità sull’amore stesso. Esso dunque è portato in analisi come sintomo, come problema da risolvere, questo amore bizzarro che fa irruzione nella seduta analitica e che al tempo stesso è la leva che permette di entrare nella problematica dell’amore, in modo che si possa imboccare la direzione della verità.
Lacan critica i suoi colleghi del tempo di aver operato un ridimensionamento della portata del transfert in analisi, rilanciando con forza, invece, il contributo necessario che il transfert offre alla cura. Contributo necessario vuol dire che senza di esso non può esservi cura. La relazione analitica si svolge in un letto d’amore, amore che non ha bisogno per funzionare né della bellezza né del contatto fra i corpi. L’amore di transfert è qualcosa di reale, presente, vero, imprescindibile, fondato sull’esperienza, tra l’analizzante e l’analista. L’amore si cura con l’amore. Quindi non è un termine astratto, non è un punto su cui misurare le reazioni controtransferali, su cui poi formulare delle diagnosi, ma è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza che si deve imparare a maneggiare.
Con “In principio era il transfert”, Lacan ricolloca il punto di origine di tutto il discorso analitico. L’amore è già lì, dunque, nel transfert, e in analogia a come si sviluppa la nascita dell’universo secondo la concezione di Esiodo della Grecia antica, dove un’improvvisa e misteriosa forza generativa inizia ad operare sul caos, organizzandolo, modellandolo attraverso un lavoro di formazione, così l’analisi opera alla stregua di questa stessa forza generativa. Non è dunque un inizio di creazione, cioè qualcosa che proviene dal nulla della sostanza e della forma della tradizione giudaico cristiana, ma un inizio di formazione della tradizione filosofica greca. La psicoanalisi “[…] è un’esperienza che parte dalla vischiosità dell’amore di transfert per arrivare a un risultato […]” che è quello di sturare il punto vuoto attorno al quale ruotano le articolazioni del linguaggio.
In sintesi, il paziente sofferente deve sostituire la sua malattia con una nuova malattia che prende la forma di ciò che Freud ha definito nevrosi di transfert:
Non dimentichiamo che la malattia del paziente che prendiamo in analisi non è qualcosa di concluso, di cristallizzato, ma qualcosa che continua a crescere e a svilupparsi come un essere vivente. L’inizio della cura non pone fine a questo sviluppo ma, appena la cura si è impadronita del malato, avviene che l’intera neoproduzione della malattia si riversa su un solo punto, ossia sul rapporto col medico. La traslazione diventa così paragonabile alla zona di cambio fra il legno e la corteccia di un albero, dalla quale deriva la formazione di nuovi tessuti e l’aumento di spessore del tronco. Non appena la traslazione è assurta a questa importanza, il lavoro sui ricordi dell’ammalato passa decisamente in secondo piano. Allora non è inesatto dire che non si ha più a che fare con la precedente malattia del paziente, bensì con una nevrosi di nuova formazione e profondamente trasformata, che sostituisce la prima.
Nella nevrosi di traslazione tutto il comportamento patologico del paziente viene a essere imperniato sulla sua relazione con l'analista, cioè configura una nuova edizione della malattia, ovvero tutti i sintomi della malattia potranno acquisire nuovi significati che condurranno il paziente alla scoperta della sua nevrosi infantile.
Dunque, artificialmente, si ricreano nel laboratorio dell’analista, che è il suo studio, le condizioni che sarebbero la messa in funzione di un certo immaginario, dove sono presenti due figure e dove ciascuna delle quali occupa una certa posizione. Affinché le condizioni dell’amore vengano poste in essere devono quindi esserci un amante e un amato, una relazione cioè che scorre lungo l’asse immaginario, in funzione tra il soggetto e il suo altro. Su questo rapporto, entro cui si mobilita l’amore di transfert, Lacan introduce una distinzione che ha il vantaggio di sdoppiare questo rapporto su due piani: quello dell’asse immaginario e quello dell’asse simbolico. In modo tale da confinare nell’uno le cose pertinenti al proprio asse e viceversa nell’altro, cioè avere chiara l’idea di ciò che è immaginario e ciò che è simbolico, in modo tale da sapere cosa va gestito e su cosa si deve operare. Per Lacan l’asse del transfert freudiano è quello immaginario, cioè quello dove avviene la ripetizione e la trasposizione di un legame antico sulla persona dell’analista, mentre l’asse del transfert simbolico è quello del legame di parola del legame attuale tra il soggetto e l’Altro, che ha la sua radice nella natura speculare dell’immaginario. Nella prima dimensione si tratta di rapporto di godimento, nella seconda dimensione si tratta di rapporto di riconoscimento.
Il transfert preso dal lato della sua dimensione simbolica spinge l’interrogazione sul piano della parola stessa e sulle leggi che la governano, la parola di fatto è strutturalmente una domanda. Affinché però l’esperienza analitica si metta in movimento bisogna che l’analizzante sia in una certa posizione all’interno di un discorso, cioè non basta solo che parli, ma questi deve domandare da un certo punto di enunciazione. In altre parole, deve prodursi un passaggio che dal discorso del padrone si arrivi ad occupare una posizione nel discorso dell’analista, cioè un punto di enunciazione da cui si formula la domanda. La domanda di cosa? – La domanda su ciò che mi fa soffrire: Ecco, analista, in prima battuta ho necessità di portarti la mia sofferenza, di dirti che sto male e dirti cosa mi fa soffrire, ma in seconda battuta è assolutamente necessario che si ponga la domanda del perché: come mai mi accade tutto questo?
Quando alla domanda segue la scoperta della propria implicazione si aprono le porte per un’analisi. Questo vuol dire che la sofferenza deve articolarsi con la dimensione del sapere, che significa situare questa sofferenza sull’asse dell’ipotesi dell’inconscio: c’è qualcosa che io non so, ma che evidentemente mi pertiene. Analogamente, quindi, se il transfer è la leva della cura, l’inconscio è la molla del transfert. La disposizione a ripetere, a chiedere considerazione, attenzione, riconoscimento ecc. e in ultima analisi amore, essendo noi umani esseri parlanti, non può che non mettere in gioco il linguaggio, sostanza di cui siamo fatti. Per cui è presente l’elemento di significante relativo all’Altro supposto sapere – cioè un aspetto transferale che consiste nel fare l’ipotesi di uno che sa – ed è presente anche un elemento pulsionale, qualcosa di irriducibile alla significantizzazione che sfugge al significante stesso e che diventa la causa dell’amore di transfert.
Si capisce bene come la domanda che si pone all’altro, prima ancora di essere formulata all’inconscio, è una domanda significativa di portata vitale, in gioco c’è l’essere, che in rapporto alla sua più intima soddisfazione, soffre. È una domanda, quella all’analista, una domanda d’amore, una domanda di sopravvivenza, è una domanda che trova il suo supporto e spinta nella pulsione, è una domanda pulsionale.
Ora, in situazioni normali, non come quelle che si trovano sul lettino di un analista, a domanda seguirebbe risposta, ma è proprio in questa tensione della domanda che risiede la leva dell’operazione analitica. Così si esprime Freud:
Voglio piuttosto porre questo principio generale: che occorre lasciar persistere nella malata i bisogni e i desideri, come forze propulsive al lavoro e al mutamento, evitando quindi di metterli a tacere con surrogati. Altro che surrogati non potrebbero infatti essere offerti, giacché l’ammalata – per il suo stato e fintanto che non sono eliminate le sue rimozioni – è incapace di un appagamento effettivo.
L’amore sorge al posto della risposta che è impossibile da trovare, perché non c’è il significante, perché nel cuore del soggetto c’è una mancanza, che non può essere definita da un attributo o da una qualità nominata, non c’è un significante in grado di saturare il buco singolare che noi siamo.
Bibliografia:
S. Freud, Lezione 27, La traslazione, in Introduzione alla psicoanalisi [1915-1917], in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 592.
S. Freud, Dinamica della traslazione [1912], in Tecnica della psicoanalisi, in Opere, vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
C. Licitra Rosa, Amore e altri scritti, (a cura di) F. Marelli, PandiLettere, Roma 2019, p. 12.
S. Freud,Osservazioni sull’amore di transfert, in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi [1913-14], in Opere vol. 7.
J. Laplanche e J-B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Economia Laterza, Roma-Bari 1998, p. 386.
A. Zenoni, I paradigmi del transfert, in La Psicoanalisi, n. 35, Astrolabio, Roma 2004, pp. 238- 239.