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Auto da fé. Elias Canetti, Biblioteca Adelphi,1981

2024-07-19 02:29

di Arianna Minonzio

FORT-DA numero 3/2024,

Auto da fé. Elias Canetti, Biblioteca Adelphi,1981

Rubriche Arti Visive di Arianna MinonzioAuto da fé. Elias Canetti, Biblioteca Adelphi,1981

“Auto da fé” è un romanzo di Elias Canetti, premio Nobel per la Letteratura 1981, ambientato nella Vienna degli anni Trenta. Solitario e disturbante, è un libro fortemente ispirato da diverse esperienze personali dello stesso Canetti, allora studente di chimica residente nella capitale austriaca, che indaga in maniera estremamente acuta e precisa la mente di un folle. Ma ci si potrebbe spingere persino più in là nel definirlo: è un libro che descrive a pennellate molto nitide l'eloquio interiore di diversi menti psicotiche, con una assoluta e feroce lucidità.

Ma, facciamo un passo indietro.

Una prima presa di coscienza che bisognerebbe far propria prima di poter parlare di Auto da fé, infatti, è proprio che un romanzo del genere non sarebbe mai stato possibile senza lo scenario instabile e sinistro dell’Europa dell’epoca e la personale - quasi profetica - interpretazione soggettiva dell’autore. Seppur Canetti faccia risalire la forza immaginativa che ha originato questa storia all'estrema e assoluta Berlino, è indispensabile fare un affondo invece sulla scena della capitale austriaca per cogliere appieno il suo sostrato, allora totalmente sconquassato dalla caduta dell’Impero.

Dopo il trattato di Saint-Germain del 1919, l’Austria conosceva per la prima volta la Repubblica. Una repubblica che, nata dal trauma della caduta imperiale, era caratterizzata da instabilità economica, iperinflazione e alti livelli di disoccupazione, che alimentavano inevitabilmente il malcontento politico. Uno scenario difficile il suo, che rendeva frammentato soprattutto il suo tessuto sociale, scatenando fenomeni violenti ed estremisti.

“Il mondo era andato in pezzi e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua frammentazione era ancora possibile dare di esso un’immagine veritiera”

Così descrive Canetti il suo mondo di quegli anni appellandosi poi a episodi ben precisi, sia pubblici sia privati, per spiegare la genesi del suo riuscitissimo romanzo.

Un primo esempio in questo senso è quello dell’affitto di una stanza fuori dal centro della capitale, che darà forma a due importanti idee.

“Nell’aprile del 1927 avevo preso in affitto una stanza fuori Vienna su una collina oltre Hacking, nella Hagenberggasse. Precedentemente ero stato in varie camere ammobiliate per studenti nel centro di Vienna, e ora, per cambiare, desideravo abitare fuori città. Il Lainzer Tiergarten con i suoi alberi secolari mi attraeva, e l’annuncio di una camera libera vicinissima alle mura del giardino zoologico mi saltò agli occhi. Il panorama mi entusiasmò: al di là di un parco giochi si vedevano lungo il pendio gli alberi del grande giardino arcivescovile e, dall’altra parte sulla valle, sulla cima della collina di fronte, lo sguardo si posava sullo Steinhof, la città dei pazzi cintata da una muraglia.”

In questa camera Canetti conoscerà la padrona di casa da cui si ispirerà per il personaggio di Therese, e sarà esposto in maniera prolungata al manicomio dello Steinhof “la cui vista quotidiana, dove vivevano seimila pazzi, è stata la spina nella mia carne. Sono assolutamente certo che senza quella stanza non avrei mai scritto Auto da fé.”

Da questa particolare circostanza Canetti rimarrà molto suggestionato, tanto da iniziare a sviluppare una riflessione: quella della possibilità di esistenza di vite isolate come monadi, e del loro necessario tragico epilogo.

Ma per dare sostanza al ragionamento è anche interessante citare un ultimo aneddoto, quello dei suoi frenetici mesi di vita berlinesi, dove “tutto avveniva in pubblico, dove ogni cosa nuova e interessante subito diventava celebre. [...] Mai prima d’allora avevo visti riuniti tutti insieme uomini così complessi e diversi tra loro, così agli antipodi, così bizzarri.”. Questa esperienza farà maturare un’esigenza forte dentro di lui “bisognava escogitare con grandissimo rigore dei personaggi estremi, come quelli di cui in effetti il mondo era fatto, e questi individui bisognava raffigurarli in tutti i loro eccessi, l’uno accanto all’altro e ognuno separato dall’altro. Concepii allora il mio piano di una «Comédie humaine dei folli»”.

La sua commedia dei folli partirà da una prima e importantissima dichiarazione d’intenti, quasi una presa di posizione filosofica: il titolo. “Auto da fé” è infatti la traduzione impropria dell’originale tedesco “Die Blendung”, accecamento, scelta personalmente dallo stesso Canetti per la versione italiana, che, a primo impatto, fa misteriosamente riferimento alla pratica dell’ ”atto di fede” dell’Inquisizione spagnola medievale. Una pratica che indicava la proclamazione della sentenza dell’inquisitore, cui seguiva l’abiura o la condanna degli eretici. O, come probabilmente in questo caso, il supplizio degli eretici sul rogo e le relative cerimonie di accompagnamento.

Questo perché, effettivamente, “Auto da fé” è la storia di una condanna. Ma anche quella di un inganno, di un abbaglio. Forse di entrambi. Sicuramente è la storia di una traiettoria umana, anzi di più di una, che si chiude scleroticamente su sé stessa, rendendo impossibile qualunque possibilità di traduzione e, quindi, di vita.

Il romanzo narra la storia di Peter Kien, un rinomato sinologo che vive murato nella sua torre d’avorio. La sua esistenza è un'ascesi continua verso una cultura impossibile, una cattedrale sacra di storia e filosofia cui l'accesso è completamente vietato ad altri che non siano i suoi personaggi di carta. Perché Kien in effetti disprezza ogni vita che non sia la sua o quella delle persone con cui non deve avere realmente a che fare: i suoi idolatrati e unici amici, i filosofi buddisti del passato. Ma, come il titolo vuol lasciare intendere, non c'è condanna più dura di quella della vita su chi vuol negarla: il Professore, totalmente incapace di instaurare un rapporto umano e di distinguere le vite buone dalle cattive, finirà a causa della sua ingenuità fra le spire della sua governante Therese, una donna gretta, avida e ripugnante, che vedrà nel matrimonio un'opportunità per impadronirsi delle sue ricchezze.

Man mano che Therese assumerà il controllo della casa e delle finanze, anche lei vittima della sua stessa solitudine, seppur opposta e saldamente attaccata a ciò che c'è di più basso, Kien verrà piano piano bandito dal suo mondo, "Una testa senza mondo”, il titolo del primo capitolo, per ritrovarsi nella totale balia del mondo esterno “Una testa senza mondo”, che dà invece il nome al secondo capitolo, quello che, non avendolo mai conosciuto, finirà per travolgerlo. Preda di un crescendo di paranoia e follia, Kien si scontrerà con altre solitudini autistische come la sua, che però, colta l'impreparazione del Professore alla vita, prenderanno il sopravvento.

Auto da fé tratta di vite eretiche e solitarie e, per questo, destinate con ironia spietata a incontrarsi. In un racconto terribile e mostruoso, in cui l’impossibilità di una vita di aprirsi sull’Altro si erge inevitabilmente a condanna, si continuano a generare inganni, fraintendimenti, illusioni. Le illusioni di menti opposte e identiche, che cercano nel loro circuito sclerotico l’interpretazione del mondo, lo stesso mondo cui non hanno mai desiderato realmente partecipare, se non con il loro rigido e tragico unico modo.

E quella stessa illusione che spinge Kien, l’eterno innamorato della morte, a eludere la vita con la stessa acribia con cui traduce i testi antichi, si ritorcerà su di lui in una nemesi spietata e inesorabile. Forte a fargli capire che la vita arriva sempre a chiedere il conto, specialmente quando la si vuole esorcizzare, non sarà un caso nemmeno l’etimologia del suo nome. Kien è infatti una particolare varietà di legno di pino, ricca di resina e dunque facilmente infiammabile.

Un altro modo per dire fragile, senza anticorpi, destinata a bruciare sul rogo in eterno per la sua imperdonabile ingenuità.

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