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Dott. Angelo Villa

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Resistere alla vita

2025-02-04 01:41

di Nicoletta Brancaleoni

FORT-DA numero 4/2025,

Resistere alla vita

Resistere alla vita di Nicoletta Brancaleoni

 

Resistere alla vita.

Nicoletta Brancaleoni

In concomitanza con la stesura di questo mio intervento, una paziente che seguo da tre anni inizia, improvvisamente, a usare spesso la parola “trauma”. “Sono traumatizzata” diventa un leitmotiv legato a situazioni di diverso tipo o gravità che vanno da «Sono traumatizzata: ho rischiato di avere un gravissimo incidente perché mi sono addormentata mentre guidavo!» a «Sono traumatizzata perché ho visto il cane del mio vicino ridotto molto male!».

Maddalena è arrivata, tre anni fa, con una richiesta di aiuto per uscire da una depressione che lentamente, a suo dire, si è insinuata nella sua vita da quando si è separata e ha dovuto occuparsi da sola dei suoi tre figli, ora adulti.

I suoi genitori, anziani ma in perfetta salute, sono molto presenti nella sua vita in quanto è lei a doversene occupare, poiché i suoi fratelli non se ne interessano e hanno con loro soltanto rapporti formali.

Definiti nei nostri primi incontri, come spesso (ahimè!) succede, “genitori meravigliosi”, emerge invece un sentimento molto ambiguo nei confronti della madre, «una donna stupida e oca» che porta Maddalena a non avere nessun apprezzamento per lei e a sentirsi costretta ad aiutarla solo per dovere. Dichiara invece grande stima e amore per il padre, ex dirigente pubblico di alto livello che lei definisce “l’uomo della mia vita”. Dai suoi racconti, e per lei inconsapevolmente, questo padre perfetto inizia a rivelarsi pian piano come un despota, che ha sempre trattato in modo duro i suoi figli maschi, privilegiando lei che, però, fin da bambina, è stata trattata “come se” fosse maschio. La sua vita infantile e adolescenziale è stata scandita da una educazione molto rigida, costituita da divieti e richieste di comportamenti formali rigidissimi che lei ancora cerca di seguire, poiché sono stati, fino ad ora, l’unico sentiero percorribile.

Adesso, dopo una serie di sogni molto intensi di guerre, litigi, attacchi terroristici, hanno iniziato a venire a galla molteplici ricordi di quando lei, bambina e poi adolescente, assisteva a episodi di violenza del padre nei confronti di altri uomini anche a seguito di alterchi non gravi.

Contemporaneamente è uscito fuori, all’improvviso, questo significante “trauma” che lei associa a qualcosa di “non definito e legato all'infanzia". Pensa di non potersene liberare e il suo “terrore”, attualmente, è quello di poter deludere suo padre.

Il suo Super io ha iniziato a vacillare e ha iniziato a considerare che il fatto di essersi sentita la preferita di suo padre rispetto ai fratelli in realtà è stata, e lo è ancora, un’arma a doppio taglio, che le ha fatto creare una corazza affettiva che ha utilizzato anche nei confronti dei suoi figli. Il suo fantasma è ancorato alla necessità di non avere debolezze, di mostrare a se stessa e al mondo che lei non ha bisogno di nessuno e che deve provvedere ai suoi figli in tutto e per tutto, controllando ogni loro movimento e iniziativa. Speriamo che il suo lavoro possa proseguire nella “smitizzazione” della sua vita che viene narrata teatralmente, con gesti e risate atti a coprire la vera paura che, nel suo caso in particolar modo, è quella dell’incontro con la castrazione dell’Altro, maschio, padre e onnipotente.

Su mia richiesta Maddalena, che è donna colta e intelligente, definisce il trauma che tanto nomina «una gabbia dalla quale non si può uscire».

La definizione soggettiva e al contempo l’uso ripetuto che la paziente fa del termine “trauma” mi aiutano a scrivere questo mio intervento, nel quale voglio utilizzare il significante trauma nel senso lacaniano, cioè come un apres coup.

 

Il suo definire il trauma, su mia richiesta, come una “gabbia” mi fa associare un’altra situazione. Si tratta di un episodio che riguarda Emma, una giovane donna di venticinque anni inserita nel gruppo di psicodramma. Dopo il ricovero per una gravissima forma di anoressia, rifiuta un sostegno di tipo psicoterapico, ma accetta di entrare nel gruppo di psicodramma. È un caso estremamente complesso e delicato, in cui il sintomo anoressico è in certi periodi così invasivo che la sua salute fisica viene gravemente compromessa.

Un giorno dice di aver subito una violenza sessuale. Parla senza enfasi, senza alcun coinvolgimento emotivo apparente.

È uscita con un suo amico d’infanzia che, per lei inaspettatamente, le ha proposto di appartarsi. Lei ha accettato. «Sono stata costretta ad avere un rapporto sessuale». Considerando la delicatezza della situazione, inoltre si tratta di un gruppo di lavoro con adolescenti e giovani, ascolto quello che dice chiedendole poi se si è rivolta alla polizia. La risposta è che non ci pensava proprio, a farlo. La cosa che ripete è quanto sia arrabbiata con il suo amico perché l’aveva messa in quella situazione. L’aveva poi anche risentito e rivisto e gli aveva detto che si era comportato male! Quello che emerge dalle sue parole è il problema della costrizione da parte dell’altro, ma una costrizione che riguarda più la “richiesta di appartarsi” che, stando al suo discorso, non l’atto materiale di abuso che dice di aver subito. Quando le chiedo se abbia provato a rifiutarsi, ribellarsi, scappare, lei risponde che non poteva farlo perché aveva accettato di seguire il ragazzo nella zona appartata e quindi non poteva dire di no.

Quale situazione possiamo immaginare più “traumatica” di una violenza corporea, sessuale che una giovane donna subisce? Eppure qui, in questo significante “costretta” la questione in gioco pare un’altra, come quella di quando comincia a digiunare, o a vomitare, o a correre fino allo stremo perché si sente “costretta”.

Comunque la settimana successiva a quella del racconto porta un sogno incredibile (“non credibile” nel vero senso della parola ma evidentemente pretesto per parlare ancora del fatto) in cui il discorso manifesto è quello dell’abuso sessuale.

La collega le fa giocare il sogno. Quello che emerge dal gioco non fa altro che confermare la profondissima depressione, probabilmente melanconica (in quel momento un pochino supportata dai farmaci prescritti dallo psichiatra inviante), e un godere nel dimostrarsi costretta. Anzi, direi che la questione costrizione non appare affatto nel gioco, semmai un’impossibilità di parola, ma nulla della presunta orribilità esce fuori.

In tutti e due i ruoli, anche quello dell’amico abusante non c’è segno di violenza, né della rabbia che lei dice di aver provato. La vita di questa ragazza scorre in modo sempre uguale e a se stesso, nonostante alcuni eventi sul piano di realtà, legati comunque alla promiscuità sessuale che è uno dei suoi sintomi (aborti e assunzione più volte della “pillola del giorno dopo”).

Il gioco facilita il lutto nel senso che dalla rappresentazione parte la possibilità di cambiare discorso. Ma ciò è possibile quando non c’è un eccesso di godimento rispetto a quello che per Emma ha a che fare con l’attività sessuale. Per lei è impossibile fare un’operazione di senso, il godimento è sempre ciò che prevale. È qualcosa legato al traumatismo inteso come il dover perdere qualcosa dell’ordine pulsionale per fare l’ingresso nella parola. Il trauma, come ci dice Colette Soler, non è curabile: è rivelabile. Ma la psicoanalisi, e così anche lo psicodramma, non funzionano se non c’è desiderio di sapere.

Il gruppo di psicodramma è per Emma una sorta di amico, sicuramente più affidabile dei suoi amici della realtà, ma la sua soggettività è talmente compromessa che non riesce ad emergere. Arriva al gruppo, sempre presente e sempre puntualissima, “vomita” parole senza manifestare coinvolgimenti emotivi, ritorna nel suo guscio sintomatico. Il cambiamento positivo è stato che, dopo un paio d’anni di frequenza del gruppo, ha iniziato ad accettare di giocare. Inizialmente rifiutava qualsiasi tipo di ruolo, anche nei giochi degli altri, quindi arrivare al coinvolgimento diretto è stato probabilmente un piccolo passo avanti.

La cosa importante è che per la compagna del gruppo coinvolta nel gioco - sì, una ragazza al posto dell’abusante -, c’è stata invece una presa di coscienza. Andando nel posto dell’abusata ha capito innanzitutto che avrebbe potuto dire di no e, soprattutto, che non voleva stare in quel posto. La ragazza dice, tornando al posto: «Mi sono sentita come una vittima immolata e questo adesso mi rendo conto che mi riguarda. E non voglio più esserlo».

Nel gruppo la ricchezza di materiale associativo si crea a partire da una disponibilità consistente di significanti, che circolano nella fantasmatizzazione che viene permessa dalla trasversalità e dalla molteplicità dei transfert. Tutto ciò favorisce la soggettivazione. In questo caso, il beneficio maggiore è stato per chi è stato scelto nella parte di io ausiliare, come dice Elena Croce a proposito dell’inserimento degli psicotici nello psicodramma.[1]

 

Il sapere nel trauma

Nel Seminario XX. Ancora, Lacan affronta ancora una volta in modo dettagliato la connessione imprescindibile tra lingua e inconscio.  «Il sapere, in quanto riposa nella dimora di lalingua, vuol dire l’inconscio […]. La mia ipotesi è che l’individuo affetto dall’inconscio è lo stesso che costituisce quello che io chiamo il soggetto di un significante. Cosa che enuncio in quella formula minimale secondo cui un significante rappresenta un soggetto per un altro significante. Il significante in se stesso non è definibile altrimenti che come una differenza da un altro significante. È l’introduzione della differenza in quanto tale nel campo che permette di estrarre da lalingua quanto concerne il significante».[2]

Parole complicate come sempre, queste di Lacan, ma che parlano del nostro destino: l’inizio della nostra storia prevede un primo incontro di tipo acustico, un continuum sonoro attraverso cui ci si presenta l’Altro, ci abborda, attraverso lalingua, il parlare in sé, un fluire indistinto di suoni dapprima e dei quali iniziamo a comprendere via via il senso. Un blablabla che provoca godimento, un piacere alimentato dalla voce.

In sostanza, Lacan ci dice che noi siamo intrisi così tanto di linguaggio che, al di fuori di esso, non esistiamo.

È nella coabitazione con lalingua che un essere diventa essere parlante, parlessere, ma è un essere parlante “puntiforme ed evanescente” sostenuto da un significante che lo fa soggetto per un altro significante.

Il significante è sempre l’uno-fra-altri, diverso dagli altri. Necessario però che ci sia un significante Uno, un significante-padrone che si incarna in lalingua, che altro non è che la lingua materna, un qualcosa di indeciso tra il fonema, la parola, la frase o tutto il pensiero. Questo sciame- S1 è quello che permette di agganciare il soggetto con il sapere. Dice Lacan che dobbiamo renderci conto che lalingua non serve a comunicare, non c’è niente di meno sicuro, ma a sapere. L’inconscio è un sapere, un saper fare con la lingua

S1 S1 S1 S1 …. finchè non entra in relazione con S2 e si può trasmettere il sapere … [3]

 

Dallo sciame alla parola

«Proviamo a immaginare una bambina in fasce che osserva il viso della madre che le parla, e pensiamo a cosa sta ascoltando quella bambina, quei suoni che per lei non significano alcunché, uno “sciame ronzante”, una “musica” senza vocabolario né grammatica. Come la musica, questa voce è insignificante e allo stesso tempo libidicamente satura, si manifesta come una lingua composta da un unico pseudo-lemma che rimanda ad un unico “significato”: il suo valore libidico. Sappiamo che la bambina sarà presto obbligata a perdere quella musica, nel senso che sarà costretta ad imparare che è fatta di parole, parole che hanno un significato, che non possono essere selezionate e combinate a piacimento ma che devono rispettare delle regole – se vuole quantomeno provare ad ottenere qualcosa dagli altri e a soddisfare i propri bisogni elementari. Bisogna smettere di ascoltare il puro suono se si vogliono afferrare le parole e capirne il significato, bisogna smettere di prestare attenzione alla loro musicalità e rinunciare al piacere che da questa ricaviamo se vogliamo parlare e comunicare; allora, come nella norma avviene, la bambina ci rinuncia, ma la musica insignificante della voce non sparisce dalla scena psichica della bambina quando inizierà ad associare significati ai suoni, così come continuerà ad essere presente in quella stessa bambina che sopravvive nella vita psichica dell’adulta, e che cercherà di recuperarne un po’, forse ascoltando musica, andando all’Opera, leggendo poesie, sicuramente cercandola nei partner amorosi»[4].

Il trauma quindi è nella psicoanalisi il nome delle prime esperienze di terrore, di cui il soggetto non potrà più liberarsi. Risiede proprio nella nascita del soggetto, quando quei flussi di suoni iniziano ad avere un senso e permettono, attraverso un’operazione di taglio e quindi di perdita l’accesso alla condivisione dei significanti. Significanti che nel momento della nascita soggettiva ci parlano, cioè parlano di noi.

Niente è se non si dice che è.  E proprio in nome di questo in analisi e nello psicodramma andiamo alla ricerca di quei significanti carichi dal punto di vista libidico soggettivo, tali per cui si attivano risposte inconsce capaci di attivare processi che portano poi a significare, a scoprire quali siano i significanti che guidano e talvolta intrappolano la nostra esistenza. In modo traumatico. Il trauma, secondo Soler, è legato a due termini: angoscia e perdita. La forza della perdita genera angoscia: l’angoscia del ritorno della perdita

 

Vittime

Nel testo Miti del trauma di Paris troviamo: «La maggior parte di noi prova grande compassione nei confronti delle vittime»[5].

Questo atteggiamento nei confronti delle vittime è un fenomeno che si sta caratterizzando sempre più il nostro linguaggio con ricadute evidenti nei comportamenti sociali.

Nel testo succitato il trauma ha una precisa definizione: «Danno della mente causato da un evento di vita stressante». Viene fatta una classificazione degli eventi traumatizzanti in base alla quale rapine e stupri risultano essere i più stressanti. L’obiettivo dell’autore è quello di dimostrare che un fatto traumatico non necessariamente conduce a sviluppare il PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) definito dall’Istituto Superiore di Sanità italiano come “la condizione di stress acuta che si manifesta in seguito all’esposizione a un evento traumatico”. Soltanto una persona su dieci sviluppa il PTSD. L’autore si chiede come mai alcuni si ammalino e altri invece sono resilienti. Perché le esperienze negative non ci fanno necessariamente ammalare è il sottotitolo di questo saggio che vuole in qualche misura essere una critica alle posizioni estremizzanti, quelle che portano poi a utilizzare il termine trauma come uno slogan. Tuttavia la conclusione è quella che il trauma va meglio definito e compreso per evitare un eccesso di diagnosi di PTSD.

 

Oggi assistiamo ad un atteggiamento in genere molto compassionevole nei confronti di coloro che si trovano nel posto delle vittime.

E si fortifica sempre più, in un legame di consequenzialità, il connubio trauma – vittima. Ma siamo sicuri che questa visione non abbia poi la terribile conseguenza di creare atteggiamenti di passività e sottomissione? Viene da chiederselo, ad esempio, a proposito dei terribili omicidi di donne da parte di compagni.

A quale grande Altro ci stiamo sottomettendo? Anche il grande Altro che opera nel campo artistico letterario sembra aver sostituito le vittime agli eroi.

Il Premio Nobel per la Letteratura 2024 è stato assegnato ad Han Kang, scrittrice coreana che nei suoi romanzi evidenzia la questione dei traumi come determinanti nella storia delle sue protagoniste.

Il Premio Strega Europeo 2023 è stato vinto da Emanuelle Carrere con V13, libro in cui si tratta delle testimonianze e delle ricostruzioni dei fatti delle vittime dell’attentato di Parigi del 2015 al Bataclan.

Il Premio Strega Europeo 2024 è stato assegnato a Triste Tigre di Neige Sinno, giovane scrittrice francese che narra la sua storia di vittima di abusi sessuali protrattisi per anni da parte del suo patrigno. Il libro è una testimonianza molto dura, lucida in alcuni passaggi e controversa in altri.

Ecco alcuni passaggi del libro:

«Per lui era insostenibile venire respinto dalla bambina che ero allora, riteneva impossibile che io non volessi amarlo e l’unica possibilità che aveva trovato per entrare in contatto con me era attraverso la sessualità».[6]

«Bisogna guardare i suoi lati buoni, diceva mia madre. Le sue manie, i difetti arbitrari che imponeva a tutti noi, gli scoppi d’ira, l’insoddisfazione. Mia madre rispondeva che non potevamo fare niente per cambiarlo, che lui non sarebbe cambiato, dunque spettava a noi far sì che fosse contento e ci avrebbe lasciato in pace. Come un Minotauro onnipotente, bisognava nutrirlo, vezzeggiarlo, soddisfarlo, e allora si poteva sperare che la sua rabbia non si sarebbe riversata su di noi».[7]

Le razionalizzazioni, che la giovane donna riesce a compiere rispetto ai suoi terribili ricordi, sono comprensibili ma aprono molti quesiti. E, se da una parte il tentativo di qualche riconoscimento, seppur malato, di amore, è servito all’autrice per sopravvivere, viene da interrogarsi su quali parole materne circolassero all’interno di quella famiglia così squilibrata. Qual è stata la questione traumatica? Si può pensare che abbia riguardato soltanto gli abusi compiuti a livello del corpo, senza ovviamente volerne ridurre l’importanza? E quali le collusioni che si sono costruite tra i familiari?

 

Nel nostro campo psicoanalitico, in cui riconosciamo il valore delle teorie freudiane e lacaniane, la questione del trauma è centrale, ma considerata secondo un’altra ottica. Non è partendo dal riconoscere la “verità” dei racconti delle prime pazienti che Freud ha costruito il suo impianto, sfuggendo mirabilmente ai possibili inganni della suggestione?

«La fiducia nella mia tecnica e nei suoi risultati subì un fiero colpo … tuttavia una volta riavutomi, fui subito in grado di trarre dalla mia esperienza le giuste conclusioni: i sintomi nevrotici non erano collegati direttamente a episodi realmente avvenuti, ma piuttosto a fantasie di desiderio, per la nevrosi la realtà psichica era più importante della realtà materiale»[8].

 

Mi hanno molto colpito le parole di Bettelheim in un saggio sull’Olocausto[9], esperienza traumatica per eccellenza: «Ho conosciuto molti ebrei e molti ariani antinazisti che si erano dati alla resistenza armata […] che riuscirono a sopravvivere in Germania e nei paesi occupati. Si tratta di persone che si erano rese conto che quando un mondo va in pezzi e la disumanità regna sovrana, non è più il tempo di continuare a vivere la vita che sarebbe giusto e che ci piacerebbe vivere […] In tempi del genere, ciascuno deve sottoporre a drastica revisione tutto quello che ha fatto, in cui ha creduto, cha ha rappresentato, per capire quello che dovrà fare. In altre parole, ciascuno deve prendere posizione sulla base del nuovo stato di cose, una posizione attiva, non già di ripiegamento su se stesso e su un mondo sempre più personale».[10] Nonostante tutto, la possibilità di assumersi le proprie responsabilità nei confronti della propria esistenza è sempre possibile.

La posizione di Bettelheim, sfuggito lui stesso alla morte dal campo di Dachau, è estremamente “responsabilizzante” rispetto perfino a chi ha subito una situazione talmente atroce che tutti siamo ancora portati a pensare che per quei prigionieri fosse impossibile sopravvivere.

Invece, ci dice l’autore, «Per sopravvivere bisognava avere uno scopo per continuare ad avere voglia di vivere».[11]

 

Ci dice Lacan, a proposito del desiderio: «Esso sconvolge la percezione dell’oggetto […] la degrada, la disordina, l’avvilisce, in tutti i casi la scuote, e qualche volta arriva a dissolvere colui stesso che lo percepisce, ossia il soggetto».[12]

Tale sconvolgimento potrebbe essere paragonato al fenomeno “trauma”. Infatti, parlando di una precisa fenomenologia del desiderio, il primo segno che ne manifesta la comparsa è dato dall’apparire di un fantasma che stravolge la percezione dell’oggetto, facendo dell’intera realtà lo scenario della sua comparsa, nel senso di rendere fantasmatica la costruzione della realtà.

Questa fantasmatizzazione della realtà è sempre all’opera e la consapevolezza di ciò può aiutarci a comprendere le modalità di annodamento con cui interpretiamo i fatti della nostra vita. E per continuare ad avere, nonostante tutti gli sconvolgimenti dell’esistenza, voglia di vivere.

 

La psicoanalisi freudiana, prima, e quella lacaniana poi presentano un’umanità complessa, difficile da comprendere, che molto si allontana dal credere comune che ci sia ad un certo punto di una terapia una svolta che permetterà di trasformare la propria esistenza. Chi decide di dedicarsi a questo tipo di pratica e di etica, «una pratica che si mantiene sotto il suo (di Freud) patrocinio»[13] sa che le trasformazioni ci sono, eccome. Ma in un senso diverso, che è quello della rinuncia alla felicità definitiva, proprio per imparare a tenere a bada l’infelicità.

Termino con le parole di un libro che amo molto, un romanzo anch’esso autobiografico carico di sarcasmo e di onestà sentimentale, Il fuoco che ti porti dentro, dedicato da Antonio Franchini alla propria madre e dal quale ho tratto il titolo di questo intervento. Mi pare che renda bene il senso che voglio provare a dare in questo intervento.

«Mi hanno detto che sono un uomo ferito.

Può essere, ma siamo tutti uomini e donne segnati da qualche lacerazione che non fa più troppo male perché, anche se non ci siamo nati, ce la portiamo addosso da sempre. Qualcun altro mi dice: “Tua madre ti è servita perché ti ha abituato a resistere alla vita”».[14]

 

 


 

[1] E. B. Croce (1990), Il volo della farfalla, Borla, Roma; (2001), La realtà in gioco, Borla, Roma

[2] J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora, 1972-1973, Einaudi, Torino, p.136

[3] ivi, pp. 136 -138

[4] C. Muscelli, Linguisteria. Note su lingua, corpo e voce nel Seminario XX, in «L’Inconscio. Rivista Italiana di Filosofia e Psicoanalisi», n. 14 – Del XX Seminario di Lacan, Dicembre 2022, Università della Calabria

[5] J. Paris, Miti del trauma. Perché le esperienze negative non ci fanno necessariamente ammalare, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, p. 13

[6] N. Sinno (2024), Triste tigre, Neri Pozza, Vicenza, pp. 93-94

[7] Ivi, p. 31

[8] S. Freud (1924), Autobiografia, in OSF, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pag.102

[9] B. Bettelheim (1952), Sopravvivere, Feltrinelli, Milano, 1981

[10] Ivi, pp. 180-181

[11] Ivi, p.213

[12] J. Lacan (1958-59), Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr.it. Einaudi, Torino, 2016

[13] J. Lacan (1966-67), Il Seminario. Libro XIV. La logica del fantasma, tr. it. Einaudi, Torino, 2024, p.113

[14] A. Franchini (2024), Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio, Venezia, p. 212

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