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Dott. Angelo Villa

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Sul trauma e sul traumatico, il caso delle tossicomanie.

2025-02-04 01:43

di Luca Giovanni Ciusani

FORT-DA numero 4/2025,

Sul trauma e sul traumatico, il caso delle tossicomanie.

Sul trauma e sul traumatico, il caso delle tossicomanie di Luca Giovanni Ciusani

Il termine trauma, dal greco τραῦμα, significa perforazione, trafittura, ferita. Usato principalmente in ambito medico, vi si ricorre sia per indicare l’evento violento causa della lacerazione, sia per indicare le conseguenze sull’insieme dell’organismo.

La psicoanalisi, e più in generale l’ambito della clinica psicoterapeutica, ha ripreso questo termine trasponendolo sul piano psichico pur mantenendo le medesime flessioni: quella di ferita, quella di evento particolarmente violento e quella relativa agli effetti dell’evento sull’insieme.

Partiamo dalla prima declinazione, quella di ferita. In psicoanalisi, secondo una definizione diventata oramai classica, il trauma si definisce come l’irruzione nella vita psichica del soggetto di qualcosa che si presenta come “inassimilabile”. L’intollerabilità dell’evento traumatico genera una sorta di esperienza senza esperienza, nella misura in cui l’irruzione nella realtà del soggetto si presenta tanto violenta da risultare letteralmente impensabile. Ciò che ne consegue è una lacerazione nel tessuto della realtà del soggetto. Il trauma, in questo senso, mostra il suo lato osceno, cioè letteralmente fuori dalla scena, dal campo della realtà del soggetto. In termini di economia psichica, si può pensare il trauma come un afflusso di eccitazioni eccedente la tolleranza o, se si vuole, la capacità elaborativa del soggetto.

L’effetto di lacerazione che si produce comporta che il soggetto della coscienza si trovi annichilito, perforato da qualcosa che si presenta come inaffrontabile. L’io, l’istanza che dà continuità alla storia del soggetto, confrontato con la contingenza dell’evento traumatico, si trova nell’impossibilità di attribuire una rappresentazione, una significazione al vissuto con il quale viene a confrontarsi.

Per esemplificare l’effetto di ferita, di perforazione causato dall’esperienza traumatica rispetto alla continuità della realtà del soggetto, riporto una testimonianza che ebbi modo, anni fa, di ascoltare. La protagonista del racconto è Hanna Weiss, sopravvissuta all’orrore dell’olocausto.

Hanna aveva 16 anni quando arriva ad Auschwitz con tutta la sua famiglia. La descrizione del loro arrivo è semplicemente atroce: appena giunti al campo, lei e la sorella maggiore sono selezionate per le baracche; la madre, i nonni e la sorella minore vengono uccisi all’istante.

Nella sua toccante testimonianza era appena scesa dal convoglio, sulla banchina della stazione con tutta la sua famiglia quando alcuni soldati la presero, insieme alla sorella, allontanandole avanti sul marciapiede. Colta dal terrore raccontò di essersi girata in direzione dei suoi cari ma, di ciò che vide, disse di non avere il minimo ricordo. Un buco nero, un tempo vuoto.

Questo drammatico racconto mostra con eccezionale chiarezza come l’intollerabilità di un evento, l’impossibilità a pensarlo, possa comportare una lacerazione nel tessuto della realtà del soggetto. Ciò che non è accettabile, letteralmente, diventa impensabile. L’io del soggetto, come nel caso di Hanna Weiss, si assenta, non vede, passa oltre proteggendo la tenuta psichica del soggetto.

Tutto questo ci introduce alla questione degli effetti sull’insieme. Il prodursi di un buco nella continuità dell’esperienza percettiva non è l’unico modo nel quale si può declinare lo “strappo” causato dal trauma. Per esempio, un evento può essere cancellato senza che vi sia la percezione di una discontinuità sulla linea del tempo del soggetto. Oppure, in un certo senso al contrario, l’evento si imprime in maniera indissolubile, polarizzando a sé tutta la vita psichica del soggetto.
 

Due tesi freudiane sul trauma

 

Per affrontare il problema degli effetti a lungo termine del trauma, farò riferimento a due tesi freudiane. La prima è contenuta negli Studi sull’isteria e riveste un ruolo fondativo nella nascente talking-cure, sebbene Freud negli anni successivi riformulerà alcuni aspetti di questa sua prima tesi in maniera radicale.

Inquadriamo la questione in estrema sintesi. L’ambito è quello dell’eziologia dell’isteria, quest’ultima concepita come una difesa, patologica, sviluppatasi a seguito di un trauma di natura sessuale. I sintomi che affliggono i pazienti, in questa concezione, sono manifestazioni cifrate, riconducibili, attraverso il processo di analisi, ad esperienze passate che il soggetto ha vissuto ma delle quali non si ricorda.

Freud prevede due momenti nel dispiegarsi del trauma: una prima scena, rimossa, dove il soggetto-bambino subisce un approccio sessuale da parte di un adulto e una seconda scena, dopo la pubertà, nella quale, per nesso associativo, è rievocato l’affetto legato alla prima scena che invade l’io. È questo secondo momento ad essere indicato da Freud come traumatico.

Dunque, l’effetto traumatico si produrrebbe solo in un secondo tempo a seguito della comparsa, nel presente, di un elemento, o più propriamente di una situazione, che riporta il soggetto in contatto con l’affetto prodottosi e non scaricatosi durante la prima scena. In questa prima formulazione, la traccia psichica formatasi nell’infanzia e l’affetto suscitato da ciò che il bambino ha vissuto, rimane nel sistema psichico come un elemento slegato del quale il soggetto non può fare esperienza finché non incontra nell’esterno qualcosa che in qualche modo riattivi quanto precedentemente vissuto.

Gli sviluppi successivi di questa teorizzazione porteranno progressivamente Freud ad attenuare la portata eziologica del trauma inteso come evento realmente accaduto a favore di una spiegazione fondata sull’importanza dei fantasmi inconsci. Alla seduzione sessuale da parte dell’adulto subentra il riferimento ai desideri inconsci e al loro complesso rapporto con le norme imposte dalla civiltà.

Questo porta il maestro viennese a complessificare la sua teoria del trauma. Attenuandosi il riferimento all’evento reale, prende corpo l’idea che l’effetto traumatico innescato dalla seconda scena si verifichi a partire da un’energia endogena non necessariamente generatasi a partire da qualcosa di realmente accaduto. All’evento si sostituisce progressivamente il riferimento a costruzioni inconsce che gli eventi esterni, per così dire, attiverebbero con il relativo afflusso di eccitazione responsabile dei sintomi.

Dunque, secondo questa concezione, l’effetto traumatico si realizza in due tempi. Prima qualcosa viene dimenticato e, successivamente, un accadimento nel campo del soggetto riattiva il ricordo liberando l’affetto ad esso legato.

 Come detto, progressivamente Freud supererà il riferimento all’evento realmente accaduto sostituendo, quale fattore eziologico, la realtà soggettiva del fatto alla realtà oggettiva dei fantasmi inconsci. Il secondo momento, quello propriamente traumatico, nello sviluppo teorico successivo agli Studi sull’isteria, trarrà la propria carica affettiva da qualcosa di profondamente soggettivo articolato in desideri e fantasmi inconsci spesso profondamente inaccettabili. Il mostrarsi dell’effetto traumatico, e la possibile presa soggettiva che il soggetto può sviluppare per esempio in analisi, diventa dunque anche l’occasione perché il soggetto faccia i conti anche con ciò che di sé ostinatamente rifiuta.

Va notato, infatti, come tale articolazione porti con sé, almeno in potenza, la possibilità per il soggetto di compiere, attraverso il trauma e la sua elaborazione, quello che potremmo chiamare un avanzamento. Il ripresentarsi nella seconda scena di un elemento riconducibile ad una precedente situazione traumatica comporta la ripetizione di qualcosa in qualche modo già accaduto del quale il soggetto può, almeno potenzialmente, fare esperienza, può provare ad affrontare e anche a capire.

Veniamo ora alla seconda tesi, questa viene sviluppata diversi anni dopo all’interno del celebre testo Al di là del principio di piacere. In questo lavoro introduce una vera e propria revisione teorica all’impianto che fino a quel momento aveva prodotto. Freud postula l’esistenza di un meccanismo psichico eterogeneo a quello che fino a quel momento era stato il principale pilastro del suo edificio concettuale, cioè il principio di piacere.

Il punto di partenza è molto semplice, almeno all’apparenza. Freud si chiede la ragione per la quale alcune esperienze particolarmente angoscianti si ripetano nei ricordi, nei sogni e nelle condotte delle persone che le hanno vissute. L’interrogativo sorge in quanto tali fenomeni sembrano contraddire la sua teoria generale del funzionamento psichico sin lì sviluppata.

Anche in questo caso la questione sorse dalla clinica. A differenza della prima tesi sul trauma, sviluppatasi in relazione all’eziologia delle nevrosi, qui il riferimento sono le nevrosi traumatiche che si manifestarono nella massa di reduci della Grande Guerra conclusasi pochi anni prima.

Gli orrori della guerra di trincea avevano prodotto un enorme numero di persone che manifestavano sintomi di varia natura prodotti da situazioni fortemente traumatiche. Ciò che si osservava in tali quadri patologici era il ripetersi, per esempio nei sogni, delle situazioni più atroci responsabili dell’effetto traumatico.

Con un’intuizione geniale, Freud avvicina tali fenomeni al celebre gioco del rocchetto ipotizzandone la medesima funzione. Come il bambino cerca, attraverso il gioco, di simbolizzare l’assenza materna e dunque di farne esperienza, anziché subirla passivamente, alla stessa maniera il ripetersi allucinato dei ricordi di guerra e nei sogni dei reduci, risponde al medesimo tentativo di padroneggiamento da parte del soggetto di un’esperienza di per sé traumatica.

Dunque, il riproporsi del trauma sarebbe il modo attraverso cui il sistema psichico cerca di affrontare, superare, metabolizzare un evento che, coerentemente con la sua definizione, ne ha lacerato il proprio tessuto. A differenza però del gioco del fort-da, la coazione a ripetere[1] che il trauma avvia non è sotto il controllo del soggetto, al contrario si presenta come un processo automatico rispetto al quale il soggetto si trova ad essere sostanzialmente impotente.

Notiamo infine che questa seconda tesi descrive un’articolazione del trauma e del traumatico molto differente da quella presentata negli Studi sull’isteria. Differentemente dalla prima tesi, la quale prevede l’articolarsi di due tempi, in questo caso ciò che si produce è il ripetersi di un primo tempo, potenzialmente all’infinito.

Sebbene il movimento ripetitivo, nell’articolazione freudiana, abbia come orizzonte potenziale il superamento dell’effetto traumatico attraverso la sua elaborazione, questo traguardo non è garantito. Ciò che questa teorizzazione mette in evidenza è l’effetto reattivo della coazione a ripetere rispetto a qualcosa che fa trauma per il soggetto. La coazione a ripetere, in questo senso, è certamente espressione di una soggettività per l’appunto reattiva, ma la cui automaticità si presenta come fuori dal controllo del soggetto.

 

 

Ripresa lacaniana sul trauma

 

Come è noto, il fulcro della riflessione lacaniana è costituito dal linguaggio come ambito specifico non solo del setting analitico ma caratterizzante la specificità dell’esperienza umana.  L’inedita rilettura che Lacan fa del testo freudiano lo porterà anche a costruire un’originale teorizzazione riguardo il problema del trauma e del traumatico.

Se nella teorizzazione freudiana è la sessualità a fare trauma, nella rilettura lacaniana, ciò che viene a costituirsi come traumatico è esattamente l’incontro del soggetto con il linguaggio. Lacan radicalizza la funzione del linguaggio nella formazione della soggettività umana. Se già Freud affermava che l'Io “non è padrone in casa propria”, l’operazione che compie Lacan è quella di considerare il linguaggio come una struttura, preesistente il soggetto, che determina il campo entro cui il vivente potrà sviluppare una propria soggettività.

Si tratta di una sovversione, esemplificata dal famoso ribaltamento dell’algoritmo saussuriano[2], nella quale non è il soggetto ad utilizzare il linguaggio bensì è il linguaggio, e le sue leggi, a determinare il modo dell’espressione dei bisogni del soggetto.

Lacan per tutto il suo insegnamento ritornerà molte volte su questa questione sviluppando questa fondamentale impostazione in diversi modi. Per quello che ci serve in questo contesto, richiamerò brevemente un famoso passo del suo undicesimo seminario:

«Se il soggetto è quello che io vi insegno, cioè il soggetto determinato dal linguaggio e dalla parola, questo significa che il soggetto, in initio, comincia nel luogo dell’Altro in quanto lì sorge il primo significante. Ora, che cos’è un significante? Ve lo ripeto da abbastanza tempo per non doverlo articolare di nuovo qui – un significante è ciò che rappresenta un soggetto. Per chi? Non per un altro soggetto, ma per un altro significante».[3]

La posizione che espone è molto netta. Il soggetto, quantomeno quello lacaniano, sorge come un effetto del linguaggio. L’espressione di una propria soggettività passa dalla necessità di rappresentarsi attraverso un personale utilizzo dei significanti.

Nella prospettiva lacaniana il soggetto viene a formarsi all’interno di un discorso, quello dell’Altro, che lo precede e, in una certa misura, lo determina. Il discorso dell’Altro rinvia all'idea che il soggetto sia sempre già situato in un campo simbolico che è altro da sé.

Dunque, oltre alla necessità di usare i significanti contenuti nel codice, per esempio l’insieme delle parole che costituiscono una lingua, il sistema simbolico incide nella formazione della soggettività anche nell’incontro particolare dell’infante con chi si prende cura di lui.

Qui si realizza la contingenza particolare dell’incontro tra il soggetto e il campo simbolico nel quale è venuto a trovarsi. Nel medesimo seminario citato sopra, Lacan fa riferimento ad una coppia di concetti, alienazione e separazione, per spiegare il processo in gioco.

Inizialmente abbiamo l’alienazione, che rappresenta l’assoggettamento del soggetto al linguaggio e a leggi che ne governano il campo. Lacan afferma che l’alienazione si dà come scelta forzata in quanto il linguaggio arriva prepotente all’uomo; ciononostante, prende senso solo quando l’uomo si assoggetta alle sue leggi. Posta questa fondamentale condizione, può svilupparsi il movimento che completa la dialettica.

Se infatti il soggetto, per poter essere riconosciuto (e dunque esistere), si trova costretto ad alienare il suo essere ai significanti che l'Altro gli impone, il modo, lo stile con il quale abiterà il campo delimitato dal linguaggio non è rigidamente predeterminato. Questa operazione di recupero, che Lacan chiama separazione, è ciò tramite cui il soggetto trova la via di ritorno, se così possiamo esprimerci, dall’operazione di alienazione.

La concezione lacaniana del trauma viene a svilupparsi su queste premesse. Il trauma originerebbe dall’incontro del vivente con il sistema simbolico e le sue leggi e dalla necessità di assumerle, di abitarle, operazione che vincola e al tempo stesso plasma il soggetto. In questa prospettiva, la soggettività umana diventa essa stessa una risposta al trauma introdotto dal linguaggio.

La valenza traumatica del linguaggio si può cogliere attraverso due questioni che, a mio giudizio, indicano lo zenith e il nadir del problema. La prima consiste nella perdita di godimento correlata all’ingresso nel campo simbolico. Per passare attraverso il linguaggio l’individuo deve rinunciare alla soddisfazione immediata dei propri bisogni e trasformarli, attraverso i significanti, in domande che si rivolgono all’altro e alle quali, l’altro, può rispondere o non rispondere. Ciò designa i contorni di un rapporto di doppia dipendenza dal linguaggio: in quanto codice che struttura l’espressione del soggetto e in quanto presenza di qualcuno che lo ascolti e ne riconosca la particolarità.

La seconda questione che delinea i contorni della ferita aperta dal linguaggio è da ricercarsi nel limite interno al linguaggio stesso. Dire che “il significante rappresenta il soggetto per un altro significante” vuol dire che non esiste un significante, una parola, che possa dire esattamente la verità del soggetto. Per quanto preciso possa essere un termine, una frase, un discorso esiste un resto irriducibile alla presa del simbolo sul reale. Si tratta di un limite strutturale interno che comporta la parzialità di ogni tentativo di espressione personale. Il soggetto può trovare sé stesso solo nell’Altro, ma tale processo è destinato a non completarsi mai.

È su questi lembi, se così possiamo esprimerci, che la soggettività, in quanto risposta al trauma indotto da linguaggio, viene a costituirsi come fosse una cicatrice. In questa prospettiva il fondamentale desiderio di riconoscimento, presente in ogni domanda posta all’Altro, ha come scopo quello di ricevere il segno di un’individuazione particolare, specifica, soggettiva che in qualche misura possa riparare dell’effetto dell’incontro con il campo del linguaggio.

Il trauma dunque, nella prospettiva lacaniana, assume un ruolo inaugurale della quale la soggettività sarebbe in qualche modo una conseguenza. In questo senso il riferimento al trauma perde la connotazione puramente negativa in quanto abitare il linguaggio è anche la condizione perché una soggettività, propriamente umana, possa darsi.

L’universalità del trauma portato dal linguaggio fa sì che diventi decisivo come concretamente questo si realizzerà nell’incontro del soggetto con il suo altro. La personalità di chi si prenderà cura di lui e che quindi implicitamente lo introdurrà alle leggi del linguaggio e dei rapporti umani. Il suo d quello dell’Altro, nonché le condizioni reali nelle quali il bambino verrà a trovarsi favoriranno o ostacoleranno il fatto che il trauma si configuri come una sorta di trauma buono, cioè, come un incontro capace di promuovere l’emergere della soggettività individuale.

In un certo senso l’introduzione al linguaggio è l’introduzione alla vita umana. È importante sottolineare questo aspetto in quanto l’incontro che il soggetto farà con l’Altro e il suo discorso condizionerà fortemente la posizione che in esso potrà occupare. Tale posizione potrà essere più o meno atta a sostenere l’emergere di una particolarità individuale, il che farà sì che l’impatto con il sistema simbolico potrà essere variamente soggettivato.

Quello che idealmente dovrebbe accadere è che il bambino, progressivamente, attraverso l’interazione con il suo altro, creda nella parola e nella possibilità di rappresentarsi attraverso di essa. Si tratta della realizzazione di quella operazione di recupero di cui abbiamo parlato sopra: il soggetto sottomettendosi simbolicamente all’Altro, paradossalmente, acquista la possibilità di separarsene.

Guardando la cosa da una prospettiva complementare, si può dire che questo incontro influirà fortemente sul modo nel quale eros e thanatos si articoleranno tra loro. Richiamando una nota formula già enunciata dal maestro francese nella fase inaugurale del suo lavoro, il soggetto […] entra nel gioco come morto, ma è come vivente che lo giocherà, possiamo dire che il soggetto per far propria questa prospettiva deve in qualche maniera credere nella possibilità di trovare nel linguaggio un recupero di quanto è chiamato a lasciare per entrare nel campo del simbolo. All’interno delle relazioni che si troverà a vivere, l’infante deciderà se credere o no all’Altro e alla sua parola e dunque alla possibilità di trovare in essa sé stesso.

 

Trauma e tossicomania

 

Veniamo ora al problema della tossicomania. La nostra idea è che essa, nella sua logica sintomatica di cancellazione della soggettività, si ponga come un esito gravemente patologico del trauma indotto dal linguaggio. Nella prospettiva lacaniana il linguaggio ha certamente una valenza alienante, da cui il trauma, ma, allo stesso tempo, costituisce il campo nel quale la soggettività può fiorire. La via della tossicodipendenza, vero e proprio rifiuto di tale logica, mina le fondamenta stesse del processo di simbolizzazione.

Questa tesi riguarda certamente le forme cliniche più gravi di dipendenza[4], ma, crediamo, possa riferirsi anche alla logica intrinseca l’abuso di sostanze. Il punto centrale della pratica tossicomanica, punto di mira o effetto inevitabile, è infatti l’offuscamento, se non l’annullamento, della soggettività individuale.

Il soggetto si trova catturato dall’ossessione per la sostanza, prigioniero di una pratica dalla quale non può o non riesce a sottrarsi. Poco conta che il tossicomane soffra di questa situazione o affermi, come fanno molti, “mi drogo perché mi piace!”.  In entrambi i casi, ciò che fatalmente accade è che la particolarità del singolo si perda e si annulli, non trovando, soffocata dalla compulsione, lo spazio per esprimersi. L’anonima maschera del tossicodipendente, come una spessa coltre di nebbia, cala sulle soggettività riducendo ogni potenziale iniziativa personale alla ricerca della sostanza. 

Inutile sottolineare come tali situazioni portino fatalmente alla rottura dei legami con le altre persone. In questo l’instaurarsi di una grave tossicomania solitamente coincide con una sorta di rinuncia dell’individuo a trovare un riconoscimento da parte degli altri.

Alle possibili soddisfazioni legate ai rapporti con l’Altro, siano esse ad esempio relazionali o lavorative, si sostituisce la ripetizione di una pratica sul corpo che introduce un godimento chimico, reale, avulso da ogni rapporto con l’altro. Quello che mostrano le storie di queste persone è l’enorme difficoltà sperimentata nel sostenere i rapporti umani e nel trovare in essi una posizione singolare articolata con una propria soddisfazione. Con una formula più generale si potrebbe dire che il soggetto non riesca a trovare un proprio modo di affrontare il vivere e, in risposta a questa impossibilità, scelga attraverso la droga il ritiro, la resa, l’oblio.

L’inevitabile conseguenza di questa rottura del legame con l’Altro è che la vita del soggetto, anche dal punto di vista concreto, si deteriori in tutti i suoi aspetti. Il tossicomane sull’altare della dipendenza sacrifica le proprie relazioni, il proprio lavoro, il proprio corpo senza riuscire a porre un freno a questa deriva mortifera.

Il riferimento alla morte non è casuale, lo si coglie nella pericolosità per l’incolumità fisica che il drogarsi comporta, ma anche nell’effetto di alterazione della coscienza che allontana il tossicodipendente dalla realtà e quindi anche da se stesso. Questa spinta autodistruttiva che punta a far sparire il soggetto sottraendolo, o forse liberandolo, dal legame con l’altro lo precipita invece in una corsa verso la morte.

Con queste premesse diventa difficile pensare il problema delle tossicomanie come una scelta volontaria. Vista la devastazione alla quale il tossicomane si consegna, come si può dire “mi drogo perché mi piace”?

A mio parere quello che le storie dei tossicomani mostrano non è tanto la volontà di drogarsi quanto più l’impossibilità, percepita più o meno volontaria, di prendere le distanze dalla sottomissione ad un godimento mortifero che li devasta.  Questa la cifra più violenta del problema delle dipendenze, il punto dal quale ne consegue tutto il resto.

Riprendendo la teorizzazione freudiana della pulsione di morte, potremmo dire che quest’ultima prevale e agisce nella vita del tossicomane svincolata da qualsiasi principio regolatore. Lacan in I complessi familiari nella formazione dell’individuo pone quale causa delle intossica­zioni, l’alcolismo e tossicodipendenze, quella che lui chiama la tendenza psichica verso la morte. Questa la citazione completa: «la tendenza psichica verso la morte si rivela in alcuni tipi di suicidio assai particolari, che si caratterizzano come “non violenti”»[5].

La tendenza psichica verso la morte, come la chiama Lacan, credo possa essere pensata come l’esito fallimentare dell’incontro del soggetto con il campo simbolico. Questo si può cogliere anche nel tipo di ripetizione alla quale è soggetto il tossicomane. Uno degli esiti dell’inserimento del soggetto nel campo simbolico è l’avvio di un processo ripetitivo, automatico, che, nella prospettiva lacaniana serve al soggetto a prendere una posizione attiva. La ripetizione mostra due versanti: da una parte il carattere automatico e incontrollato che la configura come qualcosa che supera il soggetto, dall’altro, nella suo realizzarsi in maniera particolare rappresenta anche un tentativo di risposta nel quale la soggettività può mostrarsi.

Nelle tossicomane la via che prende il fenomeno della ripetizione è invece quello di una pratica agita sul corpo prossima alla morte reale e soggettiva. Il trauma si declina qui come una trasposizione poco simbolizzata del messaggio di morte che inauguralmente il soggetto ha colto nelle relazioni primordiali con il suo altro. L’altro del soggetto, la relazione con lui anziché introdurlo alla vita l’ha consegnato ad una posizione inerme rispetto ad essa. L’atto di farsi, o meglio sarebbe dire dis-farsi, sembra in questo senso rinviare ad una declinazione della ripetizione in cui il mostrarsi della soggettività individuale viene abolito dall’automatismo mortifero della quale il soggetto è oggetto. In questa sostanziale passività credo vada colto il fallimento del processo costitutivo avviato dal trauma.

Tutto questo ha evidenti conseguenze sul piano clinico, quello della cura. La tossicomania, nel suo porsi come un rifiuto della possibilità di rappresentarsi attraverso il significante, mina le fondamenta di ogni possibile elaborazione personale. Non a caso il trattamento di tali patologie è storicamente legato a contesti residenziali dove sovente si declina in cure concrete. La parola dei pazienti fatica ad incidere sul problema a rendere conto delle difficoltà che incontrano nel vivere.

Se la tossicodipendenza si presenta come una declinazione reale ed estrema di una spinta devastatrice che abita il soggetto, l’ambizione del lavoro terapeutico dovrebbe essere quella di cercare di porre un freno a tale deriva. Credo che questo, dal punto di vista terapeutico, coincida necessariamente con la costruzione di un discorso personale, da parte del soggetto, che possa rendere in qualche misura conto della sua difficoltà ad affrontare la vita. La cura, in questo senso, più che puntare a guarire dovrebbe far sì che il soggetto si ammali di un sintomo personale.     

Il trauma indotto dal linguaggio ha come miglior esito possibile quello di introdurre il soggetto ad una logica di rappresentazione, dunque di mancanza, dove il simbolo uccide la cosa. Il drogarsi mostra invece come tale processo possa non installarsi nella vita di un soggetto. La mancanza introdotta dalla logica significante, condizione specificamente umana, risulta intollerabile, ad essa viene sostituita la pienezza degli effetti chimici degli stupefacenti. In questa illusione di completezza il soggetto si ritira, ad una vita segnata dalla mancanza viene preferita la rinuncia di una non-vita.

La cura dovrebbe allora reintrodurre, per quanto possibile, il soggetto alla pratica della parola. Il reinserimento di cui si parla spesso nell’ambito della tossicodipendenza forse dovrebbe essere inteso su questo piano e non solo rispetto gli oggetti concreti (lavoro, casa, ecc.) In questo senso, l’incontro con il curante se non proprio un trauma dovrebbe però indurre un che di traumatico. L’offerta d’ascolto dell’analista ha sempre come orizzonte la possibilità che qualche effetto si produca, che qualcosa della cura si scriva nel soggetto. In questo senso, l’atto di prendere parola può diventare una vera trasgressione in opposizione ad una ripetizione che sottomette il soggetto ad un godimento che lo annichilisce.

 

 

Lecco, 26 gennaio 2025


 

[1] Sebbene il termine di coazione a ripetere fosse già stato utilizzato da Freud in precedenza, è in “Al di là del principio di piacere” che tale concetto trova una formalizzazione maggiormente organica.

[2] Lacan rovescia la concezione del linguista Ferdinand De Sassure ponendo il Significante (S) al di sopra del significato (s). L’algoritmo si trasforma così da    (algoritmo sassuriano) a    (algoritmo lacaniano), con due conseguenze: la funzione strutturante del Significante sul significato e l’impossibilità di una perfetta coincidenza dei due termini, quest’ultimo aspetto messo in evidenza dalla presenza della barra tra i due termini.

[3] J. Lacan (1964). ll seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, p. 193.

[4] In questo contesto, che origina dalla mia pratica clinica in una struttura residenziale per la cura delle tossicodipendenze, il riferimento generico alla tossicodipendenza è riferito ai quadri patologici più gravi, dove il consumo di stupefacenti costituisce il principale asse attorno a cui ruota l’esistenza del soggetto.

[5] J. Lacan (1938), “I complessi familiari nella formazione dell’individuo”, in J. Lacan Altri scritti, Einaudi, Torino p. 35.

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