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Dott. Angelo Villa

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Dalla ripetizione al sapere. Considerazioni sul transfert

2023-12-05 18:25

di Luca Giovanni Ciusani

FORT-DA numero 1/2023,

Dalla ripetizione al sapere. Considerazioni sul transfert

di Luca Giovanni Ciusani

In una cura psicoanaliticamente orientata le persone parlano delle loro relazioni, dei rapporti con gli altri, del loro rapporto con il mondo. Accade quindi, solitamente piuttosto velocemente, che i racconti della vita relazionale del soggetto, stratificandosi seduta dopo seduta, facciano emergere degli schemi particolari e ricorrenti attraverso i quali il soggetto in questione entra in relazione con gli altri.

Anche all’interno della cura, ancor più velocemente, il soggetto metterà in atto quegli stessi schemi relazionali. Il terapeuta si troverà quindi ad essere in qualche modo incasellato in una sorta di copione nel quale prenderà la parte di un personaggio, di un oggetto del mondo interiore del paziente.

Questo movimento, automatico e inconsapevole, consiste nello spostamento (traslazione) di un modo relazionale sperimentato in un precedente rapporto alla situazione attuale. Freud riconduce questo fenomeno alla tendenza ripetitiva nella quale il soggetto si trova imbrigliato, un’espressione della coazione a ripetere ovvero quella tendenza inconscia e incoercibile, propria ad ognuno, che porta a ritrovarsi in situazioni penose senza accorgersi di avere una parte attiva in quello che accade.

Questa prima declinazione del transfert come ripetizione inconscia si presenta quale ostacolo in relazione con la finalità, trasformativa, del percorso di cura. Il lavoro di memoria nel quale il soggetto è ingaggiato nel ricostruire la propria trama relazionale, il proprio romanzo, viene in qualche maniera ostacolato dal suo stesso mettere in atto, con il terapeuta, le stesse condotte che cerca di simbolizzare. Questo aspetto del transfert è ciò che porta Freud a definirlo come una resistenza al percorso analitico. Il paziente agisce anziché ricordare e procedere nel lavoro di elaborazione.

Ciononostante, il fatto che il soggetto, inconsapevole dello schema che lo guida nel suo rapportarsi con il mondo, lo agisca nella relazione con il terapeuta è anche ciò che permette l’avvio di una cura psicoanaliticamente orientata. Così la condotta del paziente, lo stile che manterrà nella relazione con il terapeuta, potrà essere messo in relazione con altre relazioni del passato. 

Mi sembra importante notare che il progressivo svelarsi, nel discorso del paziente, della trama inconscia che soggiace alle sue azioni è ciò che introduce, se così possiamo dire, il soggetto all’esperienza dell’inconscio.

In questo senso, la prospettiva lacaniana offre una lettura del fenomeno del transfert che permette un ampliamento del concetto al di là della mera ripetizione. Potremmo dire che il transfert, nella relazione paziente-terapeuta, si fa luogotenente della presenza della dimensione inconscia nella vita del soggetto. 

È come se comparisse un terzo elemento nella diade paziente-terapeuta. Il fatto che il paziente faccia esperienza del proprio inconscio e dell’influenza che esso ha nella sua vita permette di introdurre l’inconscio quale istanza estima, cioè come qualcosa di interno al soggetto dal quale però egli si trova ad essere escluso. 

Il dispositivo analitico, il suo setting così inteso, nella misura in cui permette di interrogare tale dimensione inconscia, è ciò che rende possibile il prodursi di un’interrogazione su di sé, di una domanda.

Dunque, se inizialmente il transfert si presenta come un movimento che si svolge dal paziente all’analista, il lavoro di quest’ultimo sarà volto a che progressivamente si compia un secondo movimento che porti il paziente verso il proprio inconscio. Come se in seduta si fosse in tre, il terapeuta, il paziente e il suo inconscio.

La ripetizione, alla quale il lavoro di simbolizzazione del transfert ha introdotto, può diventare allora un enigma che il soggetto è chiamato in qualche maniera a risolvere. L’introduzione nella cura del riferimento all’inconscio è ciò che sostiene il lavoro del soggetto e anche ciò che permette all’analista di smarcarsi dalla posizione di dover rispondere alla domanda del soggetto. È per tale ragione che Lacan, per designare la posizione del paziente in analisi, preferisce utilizzare il termine analizzante piuttosto che analizzato. 

Potremmo dire che il transfert si sposta progressivamente dal terapeuta, inizialmente pensato come colui che ha le risposte, al proprio inconscio. Ciò ha un effetto anche sull’oggetto della domanda che il soggetto pone in quanto non può più essere soddisfatta da una risposta dell’analista. Cambiando il luogo dove il soggetto può trovare le risposte che cerca, cambia anche il rapporto che egli intrattiene con la ricerca di sapere nella misura in cui non potrà più essere cercato nell’altro ma attraverso l’altro. L’analista non è più chi detiene le risposte ma piuttosto colui attraverso il quale il soggetto può ricercarle.

Vale la pena soffermarci ancora un poco sul percorso di ricerca nel quale il soggetto in analisi è ingaggiato e sulla posizione del terapeuta. Si possono schematicamente individuare due vettori nel lavoro del paziente.

Il primo consiste nella progressiva significantizzazione della ripetizione. È quanto si diceva sopra rispetto alla scoperta delle proprie trame relazionali, degli schemi relazionali operanti nella vita del soggetto. Attraverso la parola il soggetto cerca di dare un senso a ciò che, suo malgrado, avviene nella sua vita. Le relazioni, gli incontri, gli episodi che hanno caratterizzato la sua vita vengono presi da una rete di significanti organizzati in un discorso che possa rendere conto dell’esperienza del soggetto. 

Ma qualcosa sfugge a questa operazione di simbolizzazione. Per quanto il lavoro sia portato avanti   qualcosa resiste alla presa della parola. Il senso ultimo, la verità, si presenta sempre altrove, costantemente spostata in là. È ciò che Freud, in Analisi terminabile e interminabile, scritto al termine della sua carriera, chiama “la roccia della castrazione”. 

A questo proposito, l’insegnamento lacaniano, nella rilettura che compie dell’esperienza freudiana, permette un avanzamento. Al di là della ricerca del senso, Lacan introduce la questione della causa, di ciò che ha causato e causa il soggetto così come si presenta. 

È a questo che si indirizza il secondo vettore del lavoro analitico, a ciò che ha messo in moto e non smette di mettere in moto la ripetizione del soggetto. Lacan indica questo elemento causa con il termine oggetto piccolo a. Un oggetto al di fuori di ogni possibile significantizzazione affine al registro del reale, cioè a “ciò che non smette di non scriversi”.

Ma l’oggetto apiccolo, nel suo posizionarsi nel campo dell’Altro è ciò che viene in qualche modo sempre ricercato dal soggetto nelle sue relazioni con il mondo. Si tratta dell’oggetto primordialmente perduto che orienterà la condotta del soggetto nel tentativo di ritrovarlo negli incontri e nelle relazioni che avrà nella vita. È questa la dimensione di causa. La perdita di a piccolo è ciò che mette in moto la catena significante del soggetto e la sua ricerca fallace.

È interessante considerare la posizione dell’analista rispetto a questo secondo vettore. Se rispetto al primo egli è chiamato a incarnare, in una certa misura, il soggetto supposto sapere le risposte che mancano al soggetto, in questa seconda prospettiva il terapeuta occuperà un altro posto. 

L’analista deve farsi sembiante d’oggetto. Lacan, durante il suo ottavo seminario dedicato per l’appunto al transfert, utilizza questa espressione per indicare il centro della questione. Ma di quale oggetto deve farsi sembiante? L’analista permette che l’analizzante lo veda, lo faccia funzionare, come rappresentate dell’oggetto piccolo a, dell’oggetto causa del suo desiderio, dell’oggetto causa della sua vita così come si è dipanata nel tempo.

Non è un caso che Lacan utilizzi, quale esemplificazione di questo farsi sembiante d’oggetto, la figura di Socrate così come viene descritta da Platone nel Simposio. La atopia di Socrate, ovvero il suo essere non situabile, è ciò che fa da supporto a Lacan nel definire il desiderio stesso di Socrate come atopico, insituabile appunto.

L’analista, così come Socrate, non mostra il proprio desiderio, non lo rende operativo nella relazione con l’analizzante. Si tratta in fondo di un modo per declinare la regola dell’astinenza che già Freud aveva posto quale elemento necessario nella conduzione della cura. In questo senso l’analista lascia che il soggetto proietti su di lui la forma dell’oggetto che lo causa senza rispondere a sua volta come soggetto. Occupare la posizione dell’analista significa in fondo svolgere una certa funzione per il soggetto e per sostenere la ricerca della sua verità, della sua la causa. 

                                                                                                                                                             Lecco, novembre 2023

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