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Dott. Angelo Villa

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Lectio Magistralis sullo Psicodramma Freudiano

2023-12-12 18:33

di Fabiola Fortuna

FORT-DA numero 1/2023,

Lectio Magistralis sullo Psicodramma Freudiano

di Fabiola Fortuna

1. L’individuo ed il gruppo 

 

L’essere umano, fin dagli albori della civiltà, tende a vivere in gruppo e ciò gli permette di prendere coscienza e sperimentare come lo stare in gruppo sia una risorsa per poter sopravvivere, per difendersi e per curarsi.

Nella storia dell’uomo vivere in gruppo ha svolto una funzione normativa e di contenimento: lo svolgimento dei riti e delle cerimonie che segnano i passaggi fondamentali della vita dell’uomo si vivono alla presenza del gruppo; all’interno del gruppo si portano e si affrontano le tensioni e le diversità, si cerca e si dà un senso attraverso l’uso della rappresentazione alle manifestazioni umane  prevedibili e a quelle sconosciute.

Lo psicodramma freudiano è un dispositivo terapeutico caratterizzato dalla dimensione gruppale.

Penso sia  innanzitutto opportuno fare un breve cenno ad alcuni punti teorici essenziali per comprendere ciò che intendiamo per dimensioni gruppali.

Il mondo della psicoanalisi, la cui attenzione è tradizionalmente centrata sull’individuo, si è avvicinata ai fenomeni di gruppo con una certa circospezione, anche se nel tempo tale ambito ha ricevuto significativi contributi teorici.

Freud si occupa di psicologia dei gruppi in Totem e tabù (1913) ed in Psicologie delle masse ed analisi dell’Io (1921), due opere fondamentali in cui egli affronta due questioni in particolare: individuare le modalità con cui è avvenuto il passaggio dalla famiglia al gruppo sociale più vasto e capire di quale natura siano i legami affettivi in diversi contesti di gruppo (folla, piccoli gruppi spontanei, raggruppamenti organizzati come Chiesa ed esercito). 

In Totem e tabù, egli giunge a comprendere come sia cruciale  il rapporto con l’autorità paterna ed i relativi processi psichici in esso implicati, fra cui egli pone in rilievo l’identificazione, fenomeno complesso alla cui base c’è il desiderio di prendere il posto del padre e di superare l’ambivalenza odio-amore nei confronti della figura paterna. “L’identificazione è la forma più originaria di legame emotivo con un oggetto” (1913, p.295). Quindi, l’identificazione del singolo con il capo e l’identificazione dei singoli tra di loro creano la coesione di massa. Ma il legame con il capo è anche fondato sulla idealizzazione, e la personalità del singolo tende a cancellarsi al punto che l’ideale dell’Io rappresentato dal capo si sostituisca all’Io del singolo individuo.

In Psicologie delle masse e analisi dell’Io Freud si occupa nuovamente della dimensione di gruppo, superando di fatto l’apparente dicotomia tra individuale e collettivo, ancora sostenuta da alcuni: “La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità… Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale…” (1921, pg. 261).

 

Le riflessioni di Freud sui gruppi in Totem e tabù e, soprattutto, in Psicologia delle masse ed analisi dell’Io furono successivamente riprese da diversi studiosi che ne approfondirono diversi aspetti.

Tra gli altri, ricordiamo i significativi contributi di Bion e Foulkes.

Wilfred Ruprecht Bion sviluppa il suo modello teorico per spiegare le formazioni ed i processi della vita psichica nei gruppi, cogliendo significative analogie con i fenomeni descritti dalla Klein, di cui fu allievo, nelle sue teorie sugli oggetti parziali, le angosce psicotiche e le difese primarie

La gruppoanalisi di Siegfried Heinrich Foulkes è , invece, una modalità di indagine della formazione dei processi psichici che si sviluppano in un gruppo: in essa si integrano elementi teorici propri della psicoanalisi ed elaborazioni psicoanalitiche originate dall’osservazione del gruppo inteso come entità specifica.

 

2. Psicoterapia in gruppo e di gruppo

Le prime teorie psicoanalitiche di gruppo trattano prevalentemente il gruppo come entità specifica. Si rileva quindi la differenza tra lo spazio intrapsichico riconosciuto dalla pratica psicoanalitica della cura individuale e lo spazio psichico generato dai legami di gruppo. Per quest’ultimo approccio quindi il gruppo non è la somma dei processi individuali , ma possiede una organizzazione specifica, in cui i contributi dei soggetti che partecipano al gruppo sono anonimi e de-soggettivizzati, e vanno a contribuire alla formazione della mentalità di gruppo o sono subordinati alla matrice gruppale.

 

Su questa cruciale distinzione di gruppo si basa la fondamentale differenza tra l’analisi di gruppo e l’analisi in gruppo

L’analisi di gruppo è caratterizzata dalla visione del gruppo come insieme unitario, un tutto organico,  in cui viene privilegiata una concezione di gruppo come totalità e non come somma di individui. Viene quindi data particolare attenzione alle dinamiche di gruppo, di cui il singolo individuo è solo una parte. L’accento viene posto, più che sul singolo, sulle relazioni tra i singoli. In questa ottica , il conduttore agisce con interventi interpretativi che mirano ad evidenziare come le dinamiche dei singoli stiano a definire dimensioni relative all’andamento del gruppo: il gruppo ha una sua anima e produce effetti sui singoli

Diversamente, l’ analisi in gruppo considera il gruppo non un tutto unitario ma un luogo dove più persone possono essere anche trattate individualmente nello stesso tempo, pur usufruendo dei benefici che comunque il gruppo può apportare.

 L’idea di base è che il gruppo debba svolgere una funzione di “cassa di risonanza” che permetta al singolo soggetto di fare un lavoro su di sé, seguendo il filo (fil rouge)  che lega i vari discorsi portati da ognuno attraverso dimensioni associative. Ognuno quindi lavora su di sé in base anche all’attivazione prodotta dal discorso dell’altro.

Un dispositivo che risulta essere particolarmente appropriato  in un contesto storico-sociale come quello odierno, in cui si assiste ad un impoverimento progressivo delle capacità soggettive di pensare e riflettere su di sé e sulle relazioni con l’altro. Occuparsi di terapie individuali in gruppo rappresenta una incredibile opportunità sia per i pazienti sia per i terapeuti: il pericolo di assuefarsi a questa deriva “anestetizzante” riguarda infatti anche noi “addetti ai lavori”, probabilmente fra i pochi attori rimasti ad avere a cuore il soggetto in quanto tale, nella sua unicità e originalità.

Origini dello psicodramma freudiano

Lo psicodramma classico è una invenzione di Jacob Levi Moreno, uno psichiatra di origine rumena che operò prima a Vienna e poi negli Stati Uniti. Egli sperimentò l’utilizzo dei cosiddetti “metodi attivi”: I metodi attivi sono l’insieme di quegli approcci esplorativi e linguaggi espressivi che favoriscono l’emergere creativo e spontaneo di tutte quelle parti di sé e dei vissuti che spesso sono mascherati, poiché mediati dalla ragione.

Nel 1925 si trasferì in America dove fondò l’Accademia dello Psicodramma. Alcuni analisti francesi andarono in America per incontrare Moreno e tornarono con nuove idee circa la possibilità di integrare il sapere psicoanalitico con le tecniche psicodrammatiche. Vennero quindi elaborate nuove forme di terapie di gruppo, come lo psicodramma triadico e lo psicodramma analitico, termine generico in quanto varia il tipo a seconda della teoria analitica.

 

3. Lo psicodramma freudiano di Eugenie e Paul Lemoine

 

Tra i dispositivi analitici in gruppo, lo psicodramma freudiano è quello che ha avuto una notevole diffusione in Europa, e non solo.

Lo psicodramma freudiano deriva dal fortunato incontro di due pensieri, la teoria freudiana e lo psicodramma di Moreno, apparentemente molto lontani fra di loro, ma che nel tempo hanno trovato un ideale punto di incontro nelle nuove forme di psicodramma elaborate negli anni ‘50 da alcuni studiosi europei, principalmente francesi e che presero varie denominazioni. 

Agli inizi degli anni ’60, partendo dalla rilettura della teoria freudiana proposta da Lacan, Eugenie e Paul Lemoine hanno proposto una versione originale, di Psicodramma inizialmente denominato “freudiano”, o analitico, riferendosi con tale termine alla peculiarità di un modello caratterizzato da una attenzione alle traversie del desiderio del soggetto, all’emergenza dell’inconscio e ad uno specifico lavoro di transfert.

La domanda di analisi

Ogni partecipante si avvicina ad una terapia analitica con una propria domanda. La domanda riguarda la propria sintomatologia (Lacan  considerava il sintomo una verità che resiste al sapere) piuttosto che la sua identità. Nell’entrare in un contesto analitico il soggetto accetta la possibilità che il sintomo porti con sé un significato nascosto, e quindi accetti il “rischio” che questo significato possa essere trovato.

 

Il setting nello psicodramma freudiano

Il setting è la base su cui si struttura e si svolge il processo analitico. Freud lo aveva definito “area di gioco e di illusione”, noi più in generale potremmo definirlo come una cornice cui corrisponde la struttura mentale dell’analista, che ha la funzione di permettere la creazione di un’area di gioco e di simbolizzazione. La parola portata dal paziente necessita infatti di un contesto stabile in cui i vari elementi “mobili” del processo analitico possano diventare comprensibili e quindi materiale su cui “lavorare”.

Il setting però non è un mondo chiuso ma è uno strumento (Elena Croce lo definisce una cerniera) attraverso cui ogni vicenda acquista il diritto di parola.

Veniamo dunque a descrivere a grandi linee il setting nello psicodramma freudiano.

Il setting nello psicodramma freudiano

In linea generale, lo psicodramma freudiano è caratterizzato dallo svolgimento di  incontri in gruppo, settimanali, della durata media di circa una ora e mezza. Il gruppo è formato solitamente da un numero variabile di persone che va da 8 a 15. Le sedute sono condotte da due analisti, uno in funzione di conduttore, uno di osservatore, e tali ruoli si alternano negli incontri.

L’animatore indica l’inizio della seduta, dopodichè i partecipanti prendono liberamente la parola; l’animatore durante la seduta può sottolineare alcuni elementi del discorso oppure può invitare a rappresentare una parte del discorso. 

Si passa quindi dal discorso indiretto (il discorso fatto da posto) al discorso diretto; è il “gioco”. Il “gioco” consiste nella rappresentazione di un episodio accaduto oppure di un sogno, ed il soggetto invitato a giocare sceglie altri membri (i cosiddetti Io ausiliari) che interpreteranno le varie parti che animeranno la scena del racconto. 

La ricostruzione del fatto rappresentato deve essere fedele al ricordo evocato dal paziente, ma poi, la messa in scena, potrà mostrare degli “scarti” tra ciò che è stato raccontato e ciò che è “giocato”. Scarti che possono essere indicativi di una verità diversa da quella manifesta, e su cui il terapeuta potrà far riflettere il paziente.

La scena del gioco risulta scarna, con pochi riferimenti al reale: una sorta di “tabula rasa” dove l’azione dei partecipanti potrà risaltare con maggiore evidenza (Lemoine, 1972).

I protagonisti reali non sono presenti sulla scena, a parte il paziente. La scena rappresentata è una riproposizione sul piano immaginario e non risulta importante che sia fedele storicamente ma piuttosto al ricordo che se ne ha (Croce, 1990). 

Si promuove, quindi, una forma di unità immaginaria con l’obiettivo di un suo superamento per accedere ad un registro simbolico.

Al termine di ogni incontro l’osservatore restituisce al gruppo alcuni elementi  cruciali emersi nel discorso della seduta, segnalando i significanti che hanno circolato. 

Prendendo, quindi, come punto di partenza un tema più o meno di interesse collettivo, il singolo partecipante è indotto a interrogarsi sulla propria posizione soggettiva e sulle prospettive personali (Croce, 1990): infatti lo psicodramma, è bene sottolinearlo, pur essendo una terapia in gruppo, non fa riferimento al gruppo come totalità, unitaria e diversa dalla somma dei singoli individui.

Il peculiare aspetto immaginario del contesto non comporta, però, un’ assenza di regole, tutt’altro: lo psicodramma è un gioco e come tale  ha le sue regole, che valgono, comunque, soltanto all’interno del gruppo.

La regola principale è quella della spontaneità, che permette di far emergere l‘espressione più originale di sé: la rappresentazione nello psicodramma non è una prova di abilità teatrale, ma è l’opportunità che si offre ad ognuno per  scoprire nuovi aspetti del sé. Oltre alla regola della spontaneità altre regole importanti sono quelle per cui si raccomanda di non avere rapporti fuori dal gruppo e di osservare la massima riservatezza su quanto avviene durante gli incontri. A tale scopo spesso si utilizzano i soli nomi propri. 

Con tali accorgimenti si intende impedire il ricrearsi nel gruppo di situazioni reali vissute al di fuori di esso, che potrebbero in qualche modo contaminare la situazione immaginaria. Per evitare tale tendenza lo spazio dello psicodramma deve essere il più neutro possibile così che possa diventare uno strumento flessibile per la prospettiva immaginaria e simbolica di ciascuno. 

Altro aspetto importante, ma che rientra comunque nella più generale regola del rispetto del setting, comune a tutte le psicoterapie, è la regolarità negli incontri.

Le regole quindi hanno lo scopo di garantire al gruppo di rimanere sul piano immaginario e non “precipitare” nella vita reale. Sono regole, occorre sottolinearlo, non regolamenti e la loro eventuale violazione non comporta una sanzione ma può diventare lo spunto di riflessione per analizzare ed interpretare un determinato  comportamento.

Caratteristiche del gruppo nello psicodramma freudiano

Abbiamo già accennato al fatto che nello psicodramma freudiano il gruppo è certamente un elemento essenziale, ma con caratteristiche peculiari.

Approfondiamo brevemente questo punto, che ritengo essenziale per comprendere appieno la valenza terapeutica (e non solo)  dello psicodramma.

Nello psicodramma analitico non si ”fa gruppo”, nel senso che il lavoro terapeutico non si fonda sull’unità del gruppo come fantasma o come sistema. 

Ci si distacca quindi dalla maggior parte delle pratiche analitiche di gruppo, in cui questo è generalmente considerato nella sua totalità, con un suo inconscio e che, di fatto, rappresenta il fattore facilitante l’espressione degli affetti. 

Nello psicodramma freudiano, invece, il gruppo è “aperto ai quattro venti” (Croce, 1990), ed ogni partecipante  arriva al gruppo con una propria domanda per la quale cerca una risoluzione; la molla principale del modello terapeutico non è quindi l’identificazione ma il desiderio. 

Risulta quindi evidente che la finalità non è la promozione di un senso di  appartenenza ma, in un certo qual modo, il suo opposto: fare cure individuali in gruppo.

Sottolineare il fatto che nello psicodramma viene privilegiata la dimensione individuale, non significa che il gruppo non influenza l’agire di ognuno dei partecipanti: lo stesso Freud, è bene ricordarlo, affermava che la psicologia collettiva è primaria rispetto alla psicologia individuale. In un piccolo gruppo che si riunisce periodicamente, tagliato fuori dalla vita quotidiana, ogni fenomeno si verifica con una sua intensità ed una sua peculiarità: Lemoine indica questa situazione col termine “eterotopia”, che facilita con i suoi stimoli interni e con la sottrazione agli stimoli esterni l’espressione di affetti  non abituali a livello cosciente.

Le singole istanze, dunque, tengono comunque presenti quelle degli altri, ed attraverso l’incontro-incrocio dei vari discorsi, si facilita il raggiungimento di quel “nodo”, il punto focale che può diventare gioco e consentire quindi di trasformare il significato latente in significato manifesto.

Una volta individuato, grazie alla capacità di ascolto del terapeuta, il punto nodale, il “fatto prescelto”, questi diventa il punto di partenza del gioco.

La scelta del gioco da parte dello psicodrammatista provoca un taglio nel fluire del discorso del gruppo: il passaggio dal discorso indiretto del racconto al discorso diretto del gioco consente al soggetto di esprimere il proprio desiderio esponendolo quindi al rischio della castrazione simbolica,  così come il bambino che, facendo i conti con la figura del padre, acquisisce una propria identità (Croce, 1990).

Il gioco rappresenta una opportunità  per sottolineare un nodo cruciale evidenziatosi nel corso dei discorsi dei partecipanti.

Infatti il gioco non è altro che una “messa al lavoro della rappresentazione”, che fa emergere il desiderio del soggetto fino a quel momento ben dissimulato nell’episodio vissuto, e che fino a quel momento non si presentava né si rappresentava più agli occhi del partecipante stesso

La rappresentazione può riguardare un fatto raccontato, oppure un sogno, un ricordo del passato. Una volta prescelto, il soggetto che conduce il gioco diventa esso stesso sceneggiatore e regista della scena da rappresentare. Sceglie gli “io ausiliari” che interpreteranno i ruoli da lui assegnati e fornirà loro una sorta di canovaccio per farli orientare (Lemoine, 1972).

Indubbiamente l’azione dà movimento allo spazio e consente di attualizzare le emozioni. L’azione rende attuale ciò che era narrazione, la reintroduce in un vissuto che utilizza il corpo ma  l’uso del corpo non è certo casuale: il corpo non mente mai, è visto da tutti e si controlla meno della parola.

Per di più la situazione di gruppo, la presenza  di spettatori e lo scambio di ruoli con l’io ausiliario , fa in modo che il soggetto diventi allo stesso tempo attore e spettatore di sé stesso.

Anche il ruolo degli Io ausiliari risulta particolarmente significativo

L’io ausiliare consente all’attore principale di misurare la distanza tra il personaggio che egli rivive e quello che l’Io ausiliare incarna. 

 

Il momento della rappresentazione prevede poi che la scena venga recitata di nuovo effettuando uno scambio di ruoli.

Il rovesciamento dei ruoli aiuta l’attore principale a staccarsi dal suo ruolo, da una  sua verità, per aprirsi a nuove prospettive, andando ad incrinare l’illusione che esista una posizione di verità e di potere assoluti.

Attraverso il gioco, il protagonista ha la possibilità di scoprire gradualmente la prospettiva inconscia che si ripete nella sua vita per individuare la relazione con l’alterità che caratterizza la sua vita.

Il lavoro terapeutico ha perciò lo scopo di far emergere le false prospettive, le finzioni che alterano i rapporti del soggetto con la realtà del suo mondo.

Il protagonista, e anche gli altri partecipanti, si trovano a tracciare un percorso diverso da quello dell’episodio vissuto. I cambi duolo scompongono il punto di vista originario, lo diversificano, l’analizzano.

Una volta terminata la sequenza di gioco, il protagonista effettua un “a solo”: un monologo che viene effettuato alla fine del gioco dal protagonista. La sua funzione è ritardare il rientro del protagonista nel gruppo, che rimane per qualche minuto in uno spazio intermedio da dedicare alle proprie riflessioni, prima di ascoltare i commenti di chi ha giocato e di chi ha osservato.

Al termine della seduta il terapeuta in veste di osservatore effettuerà un breve commento finale in cui porrà in evidenza i significanti emersi nel dipanarsi e nell’intrecciarsi dei discorsi: rovesciando il discorso manifesto e mettendo in discussione le certezze del soggetto, il terapeuta avrà il compito di mostrargli il suo ruolo e rivelargli il suo desidero e come il suo ruolo sia assoggettato al desiderio altrui (Lemoine, 1972).Saranno questi gli spunti che consentiranno ai singoli partecipanti di continuare il proprio “lavoro analitico” al di fuori dello spazio terapeutico.

Le funzioni dei due terapeuti, quindi, si integrano: mentre l’animatore è colui che, con i suoi interventi, sottolinea e sollecita il discorso indiretto che circola nel gruppo, per poi sostenere l’ingresso del partecipante nel gioco, favorendo il passaggio al discorso diretto della rappresentazione, l’osservatore ,sulla base di quanto ha osservato e ascoltato, riprende le questioni emerse nel corso della seduta, individua e condivide con i partecipanti i momenti significativi, gli eventuali inciampi, le contraddizioni , che possono emergere nel corso dei discorsi e del gioco.

Nella tensione fra questi due tipi di stimoli, il partecipante, spesso suo malgrado, si trova a osservare ed ascoltare nuove verità su di sé. Starà poi a lui scegliere cosa farne di questo “sapere” inedito e, molto spesso, inaspettato.

Nascita, sviluppo e ambiti di intervento dello psicodramma freudiano

Questo dispositivo nasce agli inizi degli anni Sessanta nell'ambito della S.E.P.T. (Societé d'Etudes de Psychodrame Thérapeutique) di Parigi ad opera di due psicoanalisti francesi, Paul e Eugenie Lemoine, che riescono nel difficile compito di adattare i caratteri peculiari dello psicodramma classico di Moreno all’intervento analitico freudiano, riletto da Jacques Lacan.

In Italia, su invito del Ministero di Grazia e Giustizia, i Lemoine divulgano il dispositivo trovando un seguito significativo nella società psicoanalitica italiana,  grazie alle importanti potenzialità dimostrate sia in ambito ambito clinico che  formativo.

In ambito clinico, lo psicodramma freudiano si rileva particolarmente efficace per quei soggetti caratterizzati da difficoltà nella simbolizzazione o nell’utilizzazione del linguaggio verbale, oppure per coloro che hanno tratti caratteriali adolescenziali, cui risulterebbe difficile affrontare una situazione di transfert rigida ed esclusiva, tipica di una psicoanalisi individuale; la ricchezza di stimoli propria del setting psicodrammatico risulta, altresì, utile ai pazienti depressi aiutandoli a superare le proprie difficoltà a mettersi in gioco; infine, per alcune forme di malattie organiche, il contesto immaginario in cui lo psicodramma si svolge, consente di ridirezionare le energie altrimenti investite sul proprio corpo (Croce, 1990).

 

Nel contesto formativo il ricorso allo psicodramma permette di creare una realtà virtuale dove gli allievi possono misurare le proprie capacità di comprensione e di gestione di situazioni problematiche (problem solving).

Prendendo come punto di partenza un tema più o meno di interesse collettivo, il singolo partecipante è indotto a interrogarsi sulla propria posizione soggettiva e sulle prospettive personali (Croce, 1990). 

 

Per quanto riguarda l’utilizzo dello psicodramma in ambito di supervisione, questo si è sviluppato nel tempo, gradualmente, attraverso diverse esperienze, a loro volta derivate dai gruppi Balint, che promuovevano la sensibilizzazione psicologica dei medici.

In ambito di supervisione, lo psicodramma si offre come occasione per riflettere sulla propria posizione soggettiva rispetto agli impegni concreti ed emotivi che la situazione lavorativa implica e  per la risoluzione di problematiche relative al rapporto con l’istituzione, con i pazienti e con i colleghi.

 

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