Nel saggio Introduzione al narcisismo, pubblicato nel 1914, Freud presenta un fondamentale sviluppo della teoria della libido e dei suoi investimenti. Il perno attorno al quale ruota questa operazione è l’analisi che Freud compie della questione del narcisismo.
Sebbene già in due scritti precedenti, precisamente in Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci e in Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente, Freud avesse già affrontato il tema, è con questo testo che il narcisismo assume un ruolo fondamentale nel suo impianto teorico.
Ciò che, in estrema sintesi, viene postulato da Freud è che il narcisismo, cioè una particolare collocazione libidica[1] che ha come oggetto il proprio corpo, non sia solo una fase del normale sviluppo, cosa che aveva già sostenuto nei due scritti sopracitati, ma un aspetto della vita psichica che permane lungo tutto l’arco dell’esistenza.
Il narcisismo non è più dunque una fase transitoria legata all’infanzia, o una forma di perversione patologica, ma, la contrario, nello sviluppo del discorso freudiano viene ad assumere un’importanza centrale rispetto a tutta l’economia degli investimenti libidici.
Scrive Freud, “Ci formiamo così il concetto di un investimento libidico originario dell’Io di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e ha con gli investimenti d’oggetto la stessa relazione che il corpo di un organismo ameboidale ha con gli pseudopodi che emette.”[2]
Dunque, ogni oggetto, cioè ogni rappresentazione psichica di un qualche interesse per la persona, riceverebbe la propria quota di libido dall’originario investimento compiuto sull’io che si costituirà in seguito come una sorta di serbatoio.
Lo stato di innamoramento è esemplificativo di questo processo. In tale situazione, il grande trasferimento libidico che l’innamorato compie sull’amato, la sua idealizzazione, fa sì che l’oggetto si metta, in un certo senso, al posto dell’Io.
Anche successivamente, in Compendio di psicoanalisi, quasi un quarto di secolo dopo, si esprime ancora negli stessi termini: “Per tutta la vita l’Io rimane il grande serbatoio da cui vengono emanati gli investimenti libidici sugli oggetti e in cui essi possono anche essere ritirati, così come fa un’ameba con i suoi pseudopodi.”[3]
Da una parte Freud sembra appoggiarsi ad un modello di matrice fisico-idraulica, se così possiamo dire, nel quale la libido, alla pari di un liquido, passa dall’io-serbatoio agli oggetti. D’altra parte, Freud non si limita ad un riferimento puramente quantitativo rispetto al legame esistente tra la libido narcisistica e quella oggettuale. A mio parere, non a caso evoca l’immagine dell’ameba e dei suoi pseudopodi, e non quella, per esempio, dei vasi comunicanti più coerente con il riferimento al trasferimento libido e all’io-serbatoio.
Lacan, attraverso la rilettura dell’opera freudiana alla luce del panorama culturale novecentesco, in particolare dello strutturalismo, sembra offrire un’articolazione di ciò che Freud aveva paragonato alla relazione che il corpo di un organismo ameboidale ha con gli pseudopodi che emette.
Lo psicoanalista francese riprende la questione del narcisismo non solo sviluppandone il ruolo nel processo di formazione dell’io e dei suoi oggetti, ma riconoscendo in essa una modalità discreta dell’esperienza umana. Nel suo insegnamento tale registro prenderà il nome di immaginario.
Il punto di partenza è lo specchio, cioè la propria immagine riflessa. Lacan postula che il bambino, in una certa fase del suo sviluppo, posto di fronte allo specchio si riconosca nella sua immagine riflessa. Questo comporta che il bambino distingua l’immagine come altro da sé, che la percepisca in quanto immagine e infine ci si riconosca.
Nella prototipica situazione proposta da Lacan, il bambino si trova posto di fronte allo specchio alla presenza di un adulto che se ne curi, comunemente la madre. Questo elemento terzo, eterogeneo alla coppia composta dal bambino e dalla sua immagine, è ciò che completa, se così si può dire, il processo di alienazione del bambino al suo riflesso che costituisce il punto di partenza di strutturazione dell’io.
La presenza della madre, la presenza del suo sguardo posato sull’immagine riflessa del bambino fa sì che quest’ultima venga avvolta da una sorta di aura di preziosità. Lo sguardo della madre deve entrare in gioco come un elemento simbolico, in quanto significante del desiderio materno, e costituire l’immagine del bambino come oggetto di tale desiderio.
Ciò promuove il processo di alienazione del bambino alla propria immagine, fatto che lo porterà ad acquisire un’immagine di sé unitaria e definita. Il bambino, che Lacan ci dice trovarsi in uno stato di frammentazione[4], anticipa attraverso l’immaginazione, la padronanza della propria unità corporea. Contemporaneamente, la presenza della madre in ciò che il bambino avrà colto nel suo sguardo, lo porrà in un rapporto di dipendenza dal desiderio dell’Atro.
Nello specchio possiamo dire che il bambino assuma un’identificazione primaria che rappresenta la base di tutte le altre eventuali identificazioni che egli potrà avere nel corso della vita. Il bambino si aliena ad un suo duplicato, si identifica con un’immagine che non è lui stesso ma che, comunque, gli permette di riconoscersi.
Questa relazione con l’immagine riflessa strutturerà le future esperienze dell’adulto con i suoi oggetti, costruiti su una logica speculare di rispecchiamento. Si tratta dell’altro della somiglianza o della dissomiglianza, non tanto quello della differenza. Ecco che il richiamo all’ameba e ai suoi pseudopodi sembra retroattivamente trovare una sua ragione.
Nella teorizzazione di Lacan, Io e i suoi oggetti sono infatti i due termini di una relazione speculare nella quale è difficile distinguere l’uno dagli altri in quanto nessuno dei due può reggersi autonomamente. Il soggetto ritrova in ogni relazione successiva l’eco di quella alienazione primaria alla sua immagine riflessa riproponendo, nel rapporto con l’altro, lo stesso misconoscimento inaugurale ricevuto dallo specchio.
Lacan a più riprese ricorre all’etologia per esemplificare questo registro dell’interazione. I colori, le forme, i canti del mondo animale costituiscono un insieme di segni che regolano de relazioni tra individui. Si pensi a titolo di esempio ai rituali di accoppiamento o alle reazioni di attacco o fuga. L’animale riconosce dei segni nell’altro e tale riconoscimento ne orienta il comportamento attraverso un programma istintuale.
Per l’uomo è diverso. Il linguaggio connota lo specifico dell’esperienza umana in relazione ad un registro differente da quello immaginario. Se nel mondo animale i segni hanno un rapporto diretto con chi li mostra e non prevedono una grande ambiguità, nel campo creato dal linguaggio i segni sono sostituiti dai significanti, cioè simboli che non hanno rapporto diretto con alcunché.
In un certo senso si può pensare il passaggio dall’immaginario al simbolico come quello dal visibile all’invisibile. Parlo di passaggio perché, ritornando al bambino, di questo si tratta rispetto alla fase dello specchio.
Il riflesso del bambino allo specchio, investito dello sguardo della madre, non deve limitarsi ad essere un’immagine, seppur ideale, ma costituirsi quale significante del desiderio e quindi della mancanza materna, introducendo così il bambino al mondo dei rapporti umani.
Concludendo, mi sembra importante notare come la soggettività della madre giochi, ovviamente, un ruolo fondamentale nel determinare l’esito di questo percorso che ha come posta in palio la costituzione dell’io. È infatti essenziale che la madre veicoli qualcosa dell’ordine del desiderio nei confronti del bambino e conseguentemente esso si ritrovi nella situazione dello specchio.
Le situazioni di grave disagio psichico testimoniano degli effetti della mancanza di un desiderio materno che investa il bambino. I fenomeni di frammentazione tipici della schizofrenia testimoniano di una grave carenza nella costituzione dell’unità corporea, così come le melanconie riflettono la mancanza di un desiderio vitale proveniente dall’Atro.
In fondo, quello che Freud chiama narcisismo primario altro non è che l’effetto di ciò che il bambino coglie essere per il suo altro. È in questo incontro che il bambino costituisce il suo io attraverso l’alienazione ad un’immagine che l’altro può rendere preziosa, attraverso il suo desiderio, o lasciarla cadere nell’indifferenza.
Lecco, marzo 2024
[1] S. Freud, Introduzione al narcisismo (1914), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. 7, pag. 441
[2] Ivi p. 445.
[3] S. Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. 11, pag. 577.
[4]Lacan usa l’espressione corp morcélé (corpo-in-frammenti) per descrivere lo stato del bambino infans alle prese con le sensazioni corporee