L’assenza del sentimento della vita
I primissimi anni di vita di un essere umano sono caratterizzati dall’esperienza della lalangue[1], infatti l’interazione con l’Altro non avviene attraverso la dimensione articolata del linguaggio, ciò che risulta preminente è la dimensione del significante in quanto evento Reale. Lalangue è l’esperienza Reale che consegue alla relazione con l’Altro e alla partecipazione al mondo dei significanti.
All’inizio dell’esistenza umana non troviamo la catena dei significanti, ma il significante come evento Reale che imprime il marchio della presenza dell’Altro nel ritmo della vita. A volte la prima impressione del marchio della presenza dell’Altro non viene scritta e ciò che rimane è un vuoto incolmabile a cui non potrà essere posto rimedio perché si tratta di una traccia relazionale che si sedimenta solo nei primi anni di vita.
Nei casi di psicosi melanconica osserviamo la mancata iscrizione affettiva dell’Altro: l’Altro del melanconico non scrive il sentimento della vita nell’esistenza del soggetto perché non fa fare al soggetto un’esperienza del Reale in quanto occasione di sintonizzazione affettiva e intersoggettiva. In tal modo l’esistenza del soggetto melanconico viene lasciata a sé stessa perché l’Altro non svolge la sua funzione di accoglienza, non manifesta cioè la sua gioia per l’esistenza del soggetto.
Nella psicosi melanconica il Reale dell’esistenza coincide con la dolorosa insensatezza della vita ed è una condizione soggettiva che non troverà più alcuna mitigazione nell’accoglienza e nelle cure che successivamente potranno venire offerte dagli altri. Il soggetto melanconico porta con sé l’assenza di questa iscrizione affettiva e questa assenza si configura come lo sfondo emotivo del suo essere nel mondo, un mondo sganciato dalla scena relazionale con gli altri.
Nell’esistenza del melanconico non si è impresso, quando avrebbe dovuto, l’incontro con l’Altro e la conseguenza dell’assenza del marchio vitalizzante dell’Altro produce la manifestazione del Reale come radicale insensatezza della vita.
Se nella clinica delle nevrosi constatiamo che la questione del soggetto riguarda l’eredità del primo marchio della relazione con l’Altro, nella clinica delle psicosi osserviamo invece un disancoraggio totale da questo marchio perché questo primo marchio l’Altro non lo ha mai scritto lasciando il soggetto nell’assenza di senso della sua esistenza. Per gli esseri umani il senso della vita è instaurato dalla prima relazione con l’Altro e successivamente nessuna funzione mentalizzante potrà mai supplire all’assenza precoce del marchio dell’Altro.
Una distanza incolmabile
Possiamo scoprire un’esemplificazione ancor più paradigmatica di questa condizione nei casi di “neo-melanconia”[2]. Come mette in luce Recalcati, in questi casi l’esistenza del soggetto si manifesta come un puro scarto dell’Altro, ma il neo-melanconico – a differenza del melanconico – non ha ancora ricoperto il Reale con un senso delirante. Nella neo-melanconia il soggetto non presenta sintomi positivi come il delirio o l’allucinazione e addirittura può formulare una visione lucida e razionale dell’assenza di senso della vita.
Troviamo una testimonianza della condizione neo-melanconica in Sunset Limited[3], un breve romanzo teatrale di Cormac McCarthy: nel dialogo tra i due protagonisti possiamo osservare che la posizione del soggetto neo-melanconico non è del tutto estranea a quella di tutti noi, tuttavia percepiamo uno scarto che rompe ogni possibilità di dialogo e segna una distanza incolmabile.
Nel dialogo con un soggetto neo-melanconico ogni tentativo di trasmettere la nostra partecipazione non sortisce alcun effetto. Il soggetto neo-melanconico può riconoscere gli sforzi che compiamo per accostarci alla sua esistenza, ma gli manca la possibilità di sentirsi ravvivato e toccato dal nostro tentativo di co-esserci. E se ci avventuriamo nella lettura di un dialogo serrato e profondo sul senso della vita, come quello dei protagonisti di Sunset Limited, ci imbattiamo in una condizione soggettiva che è impossibile trasformare perché né le parole né le riflessioni possono generare quel sentimento della vita che si scrive solo nelle prime fasi dell’esistenza.
Il sentimento della vita nasce prima delle parole, il sentimento della vita è la sorgente, è l’enunciazione fondamentale a partire da cui ogni soggetto genera i suoi enunciati. E purtroppo nelle neo-melanconie constatiamo che il soggetto è capace di produrre degli enunciati, ma il suo dire non è sostenuto dal sentimento della vita. In alcuni casi di psicosi neo-melanconica il soggetto è addirittura capace di formulare degli enunciati complessi sull’assenza dell’enunciazione fondamentale che connota il suo vuoto esistenziale. Avviene così nel dialogo messo in scena da Cormac McCarthy, un dialogo che ci permette di cogliere, in statu detraendi, ciò che genera la nostra partecipazione alla vita.
Il bordo del mondo
In Sunset Limited assistiamo a un dialogo tra fede e intelletto riguardo a ciò che potrebbe rendere una vita degna di essere vissuta.
Il Sunset Limited è il treno della metropolitana sotto il quale stava per gettarsi il protagonista BIANCO. Il dialogo avviene dentro la cucina di un appartamento anonimo, un po’ squallido ma pulito, dove abita l’altro protagonista NERO. Il BIANCO e il NERO si trovano in questa cucina, dopo che il NERO ha salvato il BIANCO impedendogli di gettarsi oltre il “bordo del binario” della metropolitana, un bordo che per il BIANCO è diventato il “bordo del mondo”, se non addirittura il “bordo dell’universo”[4].
Il discorso tra i NERO e il BIANCO si concentra sull’opportunità del suicidio quando ormai la vita è solo assenza di senso. Il treno della ragione critica ha portato il BIANCO, che è anche un professore universitario, dritto dritto verso la perdita di senso. L’egemonia dell’intelletto, come la chiama lui, non gli permette di accedere a quella condizione esistenziale che secondo il NERO gli farebbe sentire quella vena che non fa buttare giù sotto il Sunset Limited.
Il NERO introduce sin dall’inizio del dialogo la presenza di Gesù e racconta anche la storia di galera che gliel’ha fatto incontrare. Nonostante la pazienza e la fiducia con cui il NERO cerca di portare dalla sua parte il BIANCO, quest’ultimo rimane scettico e incredulo perché ormai è giunto a una consapevolezza maggiore sulla realtà del mondo. La caduta progressiva delle illusioni lo spinge a ritenere che “il desiderio di Dio non è che il segno di una mancanza in chi lo prova”[5].
È un mondo senza desiderio dell’Altro che emerge dalle contro-argomentazioni del BIANCO. Ed è un mondo che non poggia su nessuna verità: non c’è un fondamento a partire da cui proiettarsi in una direzione di senso. Tutto sparisce e perde inesorabilmente valore e l’unica verità che si profila all’orizzonte è l’assenza di fondamento della vita stessa. Verso la fine del dibattito il BIANCO dirà che è un “professore delle tenebre” e che anela all’oscurità, perché la vita non è altro che una “notte travestita da giorno”[6].
Ciò in cui crede il NERO si configura allora, secondo il BIANCO, come un velo di credenze infondate e non verificabili. Ma il NERO non vuole contrapporre alle certezze disincantate del BIANCO delle controprove. Per esempio, quando vuole far comprendere l’importanza della Bibbia, che “vediamo” poggiata sul tavolo della cucina, non dice che è più vera del libro Decadenza e caduta dell’impero romano di Gibbon, il libro indicato dal BIANCO come uno dei più importanti che abbia letto in quarant’anni di studio assennato. La Bibbia non è più vera ma è comunque il libro migliore perché la verità che enuncia è in grado di orientare ancora oggi l’apertura alla vita degli esseri umani.
La presenza dell’Altro
Nel libro di McCarthy, man mano che il dialogo si sviluppa, vediamo che il NERO cerca di spostare l’attenzione del BIANCO verso una sorta di intelligenza relazionale, una capacità di lettura della vita che parte dall’incontro ravvicinato con quelle persone che addirittura si vorrebbero sopprimere o che comunque si considera degne di imprecazioni, imprecazioni simili a quelle che il BIANCO fa nei suoi viaggi in metropolitana. Per la verità, le fa a bassa voce fra sé e sé per non farsi sentire. Ed è proprio contro questo atteggiamento che si schiera il NERO citando a questo proposito l’insegnamento principale di Gesù:
Lui non ha detto questo. Lui ha detto che si poteva avere la vita eterna. La vita. Averla oggi. Tenerla in mano. E poterla vedere. Emana una luce. Ha anche un certo peso. Non tanto. Ed è calda a toccarla. Appena appena. Ed è eterna. E tu la puoi avere. Adesso. Oggi. Solo che tu non la vuoi. Non la vuoi perché per ottenerla devi togliere le mani di dosso a tuo fratello. Anzi, devi prenderlo e abbracciarlo forte, senza stare a guardare il colore della pelle o quanto puzza, e perfino se lui per primo non vuole farsi abbracciare. E perché non lo vuoi fare? Perché lui non se lo merita.[7]
La fede del NERO non trova la sua realizzazione in un mondo diverso da quello in cui viviamo. E la presenza di Gesù non va ricercata al di fuori della propria vita relazionale e forse bisognerebbe intendere Gesù in modo eretico:
Direi che la cosa di cui stiamo parlando è sì Gesù, ma Gesù inteso come quell’oro in fondo alla miniera. Lui non poteva scendere sulla terra e prendere la forma di un uomo se quella forma non era fatta apposta per ospitarlo. E se dico che non c’è verso che Gesù sia un uomo senza che un uomo sia Gesù, mi sa che la sparo grossa l’eresia. Ma pazienza.[8]
Ciò che interessa al NERO non è capire Dio, ma capire ciò che Dio vuole da lui. È il desiderio di Dio, inteso come l’Altro, che orienta il NERO verso gli altri: “bisogna amare i propri fratelli, altrimenti si muore”[9]. E la morte di cui parla consiste nella perdita del sentimento della vita, quel sentimento che non può essere fondato dal senso e di cui ne costituisce piuttosto il fondamento.
Il NERO ricorda al BIANCO che bisogna credere in quello che si sente. Ma il BIANCO continua a sentirsi profondamente estraneo alla sua vita e a invocare invece l’arrivo della morte, ormai unica consolazione per la sua disperazione.
Non è però la disperazione dovuta alla perdita di qualcosa che c’è stato e che non ritornerà più. Il vissuto depressivo che conduce il BIANCO verso il suicidio non deriva dall’assenza di qualcuno o qualcosa di significativo. Non assistiamo alle riflessioni di un soggetto dilaniato dal dolore per la perdita di qualcosa di importante. Secondo il NERO, il BIANCO sembra uno che è paradossalmente aggrappato a qualcosa che non vuole mollare: “sono convinto che quando hai fatto il tuo famoso salto tu a quel salto ti ci stavi aggrappando e te lo stavi portando dietro. Ti ci stavi aggrappando con tutte le tue forze”[10].
Il dolore di esistere
La distinzione tra il dolore di esistere e il dolore dovuto alla perdita è una questione su cui il NERO ritorna in più momenti. La perdita non sembra una motivazione sufficiente per il suicidio, anzi l’ostinazione del BIANCO sembra assomigliare a quella di chi non vuole rinunciare a qualcosa. Il NERO ritorna ancora sulla questione attraverso queste parole:
Di che tipo di dolore stiamo parlando? Secondo me, se fosse il dolore per una perdita a portare la gente al suicidio, anche solo seppellirli tutti quanti prima che scende il sole sarebbe un lavoro a tempo pieno. E allora torno sempre alla stessa domanda. Se non è quello che uno ha perso a dare questa sofferenza insopportabile, allora forse è quello che uno non perderà mai.[11]
Il BIANCO non ritiene di proporre una visione pessimistica della realtà, secondo lui sta semplicemente descrivendo lo stato delle cose: la sua non è una rappresentazione, ma è la realtà stessa. E tutto ciò che lo allontanerebbe da questa posizione soggettiva appare soltanto come il tenue sembiante di sogni e illusioni con cui gli esseri umani si proteggono:
Se la gente vedesse il mondo per com’è davvero. Se vedesse, la propria vita per com’è davvero. Senza sogni o illusioni. Non credo che troverebbe un solo motivo per non scegliere di morire il prima possibile.[12]
Non c’è alcuno iato tra la sua rappresentazione e la vita, è con assoluta certezza che il BIANCO crede nell’assenza di valore della vita, sembra essere questa la verità prima su cui poi eventualmente si può mettere qualche mano di vernice per edulcorarla o mistificarla.
Il BIANCO non cerca un’altra vita, una vita migliore, una via di fuga che possa fungere da alternativa, vuole soltanto che tutto finisca. La morte non è l’ultimo espediente per dare una svolta a una vita che si vorrebbe migliore. Per il BIANCO il suicidio non è sintomo di una richiesta d’aiuto verso qualcun Altro, anzi sembra essere l’unico modo per tagliare il legame con l’Altro.
La separazione impossibile
Molto spesso succede che i tentativi di suicidio siano forme estreme per attirare l’attenzione dell’Altro che si sente assente o insensibile alla propria presenza nel mondo. In questi casi il suicidio lungi dall’essere un voler morire è piuttosto un appello rivolto al desiderio dell’Altro, estremo tentativo per risvegliare il desiderio dell’Altro e per mettere alla prova l’Altro di fronte alla questione che attanaglia la vita relazionale dei soggetti nevrotici: “puoi perdermi?”[13]. E così può capitare che un soggetto nel fantasticare il giorno del proprio funerale si ritrovi con l’immaginazione a scrutare tutti quei segnali che provano il dolore degli altri per la sua assenza.
In questi casi le idee suicidarie possono configurarsi come un modo estremo per ravvivare attraverso la propria assenza le manifestazioni del desiderio dell’Altro. Troviamo una provocazione e un appello simile anche in alcune forme di anoressia dove la strategia sintomatica consiste in una progressiva sottrazione di sé nella speranza che l’Altro intervenga mostrando finalmente quell’angoscia per la perdita che darebbe conferma del suo desiderio.
Ora, nel discorso del “professore delle tenebre” di Sunset Limited questa dinamica relazionale non entra in gioco, si tratta piuttosto di farla finita con gli altri e di separarsi dall’Altro. Non è in questione un appello verso l’Altro, ma il tentativo di uscire dalla presenza asfissiante dell’Altro, di quell’Altro che nel finale compare in modo angosciante attraverso la figura della madre:
Io anelo all’oscurità. Io prego che arrivi la morte. La morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei. Sarebbe la cosa più orrenda. II colmo della disperazione. Se dovessi rincontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale. Kafka coi controfiocchi.[14]
In queste battute finali osserviamo quanto nella psicosi neo-melanconica la separazione da questo Altro, da cui forse neanche la morte separerà, possa avvenire solo percorrendo quell’ultima via di fuga che coincide con il dissolvimento della vita.
Se nella nevrosi, e anche nel borderline, il suicidio esprime un tentativo disperato per invocare l’attenzione dell’Altro, purtroppo nella psicosi rischia di configurarsi come il modo più convincente per separarsi dall’Altro e dall’insensatezza della vita[15].
Il fort e il da
In Sunset Limited il NERO non si concentra sulla perdita di senso che attanaglia il BIANCO, anzi il NERO presuppone che il BIANCO sia aggrappato a qualcosa che non vuole perdere. In questo passaggio sembra che McCarthy metta in scena la teoria psicoanalitica della melanconia: la posizione del BIANCO viene intesa infatti come l’impossibilità di compiere fino in fondo l’esperienza della perdita.
Già nelle prime formulazioni di Freud[16] il melanconico si configura come un soggetto che rimane attaccato all’oggetto perduto. E l’assenza di senso della vita, il sentirsi uno scarto senza alcun legame con il mondo, è strettamente intrecciata a una condizione soggettiva dove risulta impossibile l’esperienza della perdita.
Ma di quale perdita si tratta? Qual è questo qualCosa a cui rimane aggrappato il melanconico? Come fa notare Recalcati[17], il gioco del rocchetto di cui scrive Freud in Al di là del principio di piacere può orientarci nella comprensione del rapporto tra presenza e assenza nella psicosi. In Al di là del principio di piacere Freud racconta del piccolo nipotino che giocava con un rocchetto a cui era attaccato un filo e tenendo questo filo il bambino gettava “il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire” e nel frattempo diceva “fort” (“via”), poi riconduceva nuovamente a sé il rocchetto ed esultava pronunciando un allegro “da” [“qui”][18]. In questo gioco tra sparizione e riapparizione avveniva una messa in scena dell’alternanza che simbolizza la presenza e l’assenza dell’Altro.
La melanconia non è contrassegnata dalla dialettica tra il fort e il da: l’esistenza del melanconico non è umanizzata dalla scansione del ritmo della vita che viene provocata dall’Altro attraverso quell’andirivieni relazionale che i bambini, come il piccolo nipotino di Freud, possono simbolizzare mettendo in scena il gioco di un rocchetto che viene lanciato via (fort) e poi viene recuperato (da).
Nell’alternanza della presenza e dell’assenza dell’Altro il soggetto fa esperienza di quel vuoto necessario per simbolizzare la relazione con l’Altro. La dimensione del simbolo scaturisce proprio da quel momento in cui il soggetto si confronta con l’assenza ritmata dall’andirivieni dell’Altro.
In Sunset Limited McCarthy ci offre una raffigurazione chiara per scoprire come un essere umano può essere sopraffatto da questa mancata iscrizione dell’alternanza del fort e del da nella sua vita. Nella neo-melanconia troviamo l’assenza di un Altro che sarebbe in grado di trasmettere il sentimento della vita e allo stesso tempo osserviamo un’adesione all’Altro. L’Altro è presente come un oggetto che non viene perduto e si configura come una presenza inerte e asfissiante da cui è impossibile svincolarsi. Il soggetto melanconico vive l’impossibilità di separarsi dall’Altro non facendo dunque esperienza della perdita dell’oggetto.
Winnicott, nei suoi studi sullo sviluppo del soggetto, ha mostrato come “l’oggetto transizionale” sia quell’oggetto che simbolizza l’unione con quell’Altro da cui si è separati. L’oggetto transizionale è quindi l’oggetto che nell’esperienza psichica e relazionale del soggetto prende il posto della perdita originaria dell’oggetto[19]. Ora, nella melanconia è proprio questa perdita originaria dell’Altro che non si realizza, è a causa del mancato dinamismo tra presenza e assenza che l’Altro non viene perso. L’Altro del melanconico rimane onnipresente e allo stesso tempo non trasmette il sentimento della vita perché non è un Altro vivificato dall’alternanza tra il fort e il da.
Nelle stesse pagine in cui Winnicott illustra l’importanza della fiducia nella relazione con l’Altro, osserva quanto nel lavoro clinico la questione non sia tanto da riportare all’assenza o meno di sintomi psiconevrotici, perché un soggetto può anche non presentare dei sintomi positivi, ma questo non è indice del fatto che abbia la sensazione di vivere una vita dotata di senso. Come osserva Winnicott, la psicosi ci mostra ciò che ci rende umani proprio nel momento del suo dissolvimento, così come le parole del professore delle tenebre di Sunset Limited ci confrontano con il vuoto che sta alla base della nostra esistenza, un vuoto che può diventare generativo solo grazie a un Altro capace di muoversi tra il fort e il da.
[1] Cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro XX, Ancora (1972-1973), ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2011.
[2] Cfr. M. Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Raffaello Cortina, Milano 2019.
[3] C. McCarthy (2006), Sunset Limited, trad. it. di M. Testa, Einaudi, Torino 2010.
[4] Ivi, p. 70.
[5] Ivi, p. 49.
[6] Ivi, p. 113.
[7] Ivi, p. 64.
[8] Ivi, p. 77.
[9] Ivi, p. 98.
[10] Ivi, 103.
[11] Ivi, p. 105.
[12] Ivi, p. 110.
[13] Cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, pp. 199-211.
[14] C. McCarthy (2006), Sunset Limited, cit., pp. 109-110.
[15] Cfr. N. Terminio, Lo sciame borderline. Trauma, disforia e dissociazione, pref. di M. Recalcati, Raffaello Cortina, Milano 2024.
[16] S. Freud (1915), Lutto e melanconia, in Opere, vol. 8, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1976, pp. 102-118.
[17] Cfr. M. Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, cit., pp. 29-31.
[18] S. Freud (1920), Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. 9, a cura di C.L. Musatti, Boringhieri, Torino 1977, p. 201.
[19] D.W. Winnicott (1971), Gioco e realtà, trad. it. di G. Adamo e R. Gaddini, Armando, Roma 2006 (1ª ed. 1974), pp. 19-53; 153-164.